SINGOLARE #5

Potreste come me aver dimenticato l’esistenza di Ancient Methods dopo il 2018, cioè dopo l’uscita di The Jericho Records, un lancio di fiches importante (triplo dodici pollici come primo album) che aveva fatto risuonare il nome del progetto al di fuori della nicchia technofila ma che, pur avendo i suoi bei momenti, non reggeva pienamente le ambizioni. Fin lì il duo tedesco (poi diventato appannaggio del solo Michael Wollenhaupt) aveva disseminato produzioni prolifiche e solide con la bellezza semplice delle certezze nella vita: una industrial techno dal sound design accattivante, con l’apice di ispirazione e potenza raggiunto da Sixth Method in collaborazione con il totem Regis. Lo sforzo dell’album ha prosciugato per qualche anno la vena creativa del producer, che però torna ora con questo The Third Siren in un piacevole clima da rimpatriata. La formula si è cementata su un suono che unisce la techno ruvida di scuola berlinese, le movenze plastiche della EBM e numerosi stimoli orientaleggianti, che spaziano dalle melodie dei temi alla scelta dei sample. Il risultato è coinvolgente e pure divertente, non c’è nessun particolare picco ma tutto procede come una macchina ben oliata; sul finale si concede anche un numero di abrasione industriale per chi ama l’aspetto più ottuso e punitivo di questa musica. Una coccola.  

Non c’è mai penuria di uscite che rinverdiscono la tradizione del battito spezzato di scuola inglese. In questo territorio si è distinta negli ultimi anni l’etichetta Vinyl Fanatiks, che recupera gemme sotterranee dei primi anni ’90 e le ripubblica per dare loro nuova risonanza nell’attualità. Un esempio: London Talk di DJ Krome & Mr Time, che ancora oggi insegna quanto può fare la differenza il sample giusto al momento giusto. Nel tempo però la Vinyl Fanatiks ha deciso di andare oltre la semplice opera di recupero e, tramite la propria sublabel Amen Brother, è diventata un punto di riferimento per producer jungle/breakbeat che hanno concentrato la propria produzione nei decenni scorsi e vogliono riprendere adesso il discorso con nuovo materiale. Da una collaborazione con la giovanissima label Emotec (lo so, sembra la linea familiare di una telenovela – ma siamo al termine, giuro) nasce la serie Amentec, i cui vinili hanno un lato A dedicato a due produzioni inedite e un lato B con due remix. Tra le ultime uscite c’è Ova Doce, aka Nathan Jay, che giusto trent’anni fa faceva la spola tra radio pirata e autoproduzioni, ma solo da un paio d’anni a questa parte ha ricominciato a pubblicare con regolarità trovando un proprio spazio riconosciuto a livello discografico: se volete innestare narrative del riscatto e del non smettere di crederci, direi che qui potete farlo. The Love Touch è uno snack variegato e appetitoso, che mette in mostra diverse interpretazioni dei già noti – ed efficacissimi – ingredienti dell’UK sound altezza primi anni ‘90. I Feel Your Touch si colora di luci melodiche e vocali che potrebbero illuminare benissimo un pezzo trance del periodo d’oro di Ibiza, accanto a sintetizzatori che nella coscienza collettiva hanno assunto una valenza emozionale dagli esordi della Warp in giù; tutto su un solidissimo impianto breakbeat hardcore. Nel remix Dawl immerge il brano nel proprio bagno acido, sfaldandolo in una battuta lenta che se avete ascoltato qualcosa di suo (magari il buon Break It Down) ormai conoscerete a memoria. You Loved Me Once cambia sorprendentemente registro ed esordisce con dei break digitali a metà tra la Machine Girl più Gen Z-friendly e le impennate del catalogo VulpVIBE, con tanto di colpi del pianoforte (cit.) e sample gigante sparato da un classicone come You Used to Hold Me (se volete recuperarlo, e ve lo consiglio, evitate tutta la paccottiglia di rifacimenti successivi e andate drittə sui mix originali di Ralphi Rosario con Xavier Gold). Roba da cassa dritta e zero sottigliezze, certo, ma il remix degli Escape Earth è decisamente migliorativo nel suo destrutturare e rimontare il pezzo con tanti piccoli e preziosi cambi di passo: l’enfasi si potenzia spogliandosi della prevedibilità, in quello che finisce per suonare come un mini mash-up di tre banger di stili diversi. Ce n’è per molti gusti. 

Ma diamo anche uno sguardo all’Italia e al futuro (mi prendo la responsabilità di accostare le due parole). La napoletana Sara Persico ha sguinzagliato un EP elettrico e scuro che condensa una lunga e vasta attività da unsung hero tra accademia, festival e underground, in cui ha fatto così tante cose interessanti da sentirmi scemo io a non averla conosciuta prima. Boundary opera nella zona in cui la club music si è deconstructed al punto da sfociare in scenari post-industriali pulsanti in continui flirt con il rumore; Persico mostra una grande curiosità nell’esplorare le possibilità di questo territorio, sia come producer che come vocalist. Riesce ad essere efficace quando si aggancia a strutture consolidate, come le invocazioni alla Alice Glass epoca III che nella title-track picchiano su un beat industrial hip-hop grassissimo; si dimostra già intrigante quando ci fa navigare senza mostrarci la bussola, come in Exit dove orchestra un rituale degno della migliore Pan Daijing con un attento build-up della voce fino alla conflagrazione sugli altari dei sintetizzatori, o ancora in Terra Mala che nei suoi anfratti di beat collassati e miraggi digitali mostra una creatività palpitante che sa essere indipendente dall’uso della voce. C’è l’immancabile spoken word su palcoscenico di suoni angoscianti, certo, ma anche un pezzone da mani in faccia come Under the Raw Light. Tanti spunti di interesse insomma, e pare che sia in arrivo un album a breve; fremiamo nell’attesa di sentire fin dove può portarci Sara Persico. 

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto