REALEST OF THE FAKES: IL MITO DI DR. DRE

Nell’arte tutti i grandi nomi vengono mitizzati, prima o poi. Se muori diventi un’anima turbolenta che ha vissuto troppo veloce, se invece rimani vivo finisci per avere gente che ti chiama Maestro e ti copre di soldi anche se non fai niente di buono da più di un decennio. Si sente spesso dire di artisti di basso o medio profilo che hanno bruciato tutti i soldi e ora stanno in rovina, ma chi è riuscito a scalare la montagna fino alla vetta novantanove volte su cento si può permettere di vivere – di continuare a guadagnare soldi e credibilità, perfino – senza muovere un dito. Iniziamo da un esempio per stringere il fuoco del ragionamento sulla musica hip hop: Eminem ha fatto un capolavoro, un disco bello, un disco decente e sette dischi orribili, inascoltabili, unanimemente accolti dalla critica come schifezze di cattivo gusto. Di fila. È il 2022, e l’album decente di cui sopra (l’ultimo che valga la pena ascoltare, The Eminem Show) risale al 2002; nonostante ciò, è bastata la recente pubblicazione di qualche barra sopra un beat a caso come risposta al diss di quel pagliaccio di Machine Gun Kelly (che si dissa da solo semplicemente esistendo) ed ecco acclamato ovunque il ritorno del Gigante Eminem, il killer lirico rispettato da tutti, che se lo guardi storto ti rovina carriera e reputazione. E il lato prettamente musicale non è niente: il suo capolavoro contiene Kim, una delle canzoni più agghiaccianti (in senso positivo) mai registrate nella storia della musica moderna, una fantasia omicida di potenza devastante che alzò sì un polverone al tempo, ma che insieme a ’97 Bonnie & Clyde e alle ripetute menzioni della ex moglie in tutti i suoi album successivi, nel clima di oggi dovrebbero a intuito più che bastare per innescare una di quelle slavine di indignazione da tastiera che finiscono spesso con la cancellazione della persona che ne viene sommersa. A ciò si aggiungono tutte le sue rime poco lusinghiere sull’omosessualità, il malcelato maschilismo, eccetera eccetera. Arrivati a questo punto dello scritto risulta doveroso puntualizzare che nessuna delle cose scritte sopra mi dà fastidio: anche se le posizioni dell’artista mi risultano deprecabili io voglio avere l’agio di apprezzarne l’espressione, se funziona. Predico e ho sempre predicato completa libertà nell’arte, e soprattutto non perdo il mio tempo a fare purity testing su persone che non ho mai incontrato, che vivono vite totalmente aliene alla mia, vite peraltro costantemente distorte da un pubblico scrutinio gonfio di secondi fini. Il rapporto con lo stardom e i suoi pupazzetti è uno dei rari campi in cui adotto posizioni sostanzialmente nichiliste: è affascinante seguire da esterno il mare in tempesta che è la coscienza sociale collettiva in un’epoca in cui chiunque ha la possibilità di creare uragani contro una star che si comporta male; è interessantissimo vedere come generazioni distanti quindici anni parlino lingue diverse, incapaci di comprendere in maniera anche solo parziale l’espressione artistica dell’altra; è avvincente osservare la nascita di nuovi miti, spesso totalmente vacui, e cercare di capire chi dei vecchi resisterà e chi cadrà nell’oblio. Naturalmente, quando poi arriviamo a parlare della musica in sé il mio nichilismo va in mille pezzi, ed al ghigno divertito si sostituisce l’alzata d’occhi infastidita o perfino il respiro furente, ma questa è un’altra storia. Dato il mio punto di vista, è naturale che uno dei miei idoli sia proprio la persona dietro al successo di Eminem e di moltissimi altri, l’artista che forse più di tutti ha saputo elevare la falsità a forma d’arte: Andre Romelle Young, in arte Dr. Dre

SEPARATORE

Dr. Dre è completamente amorale. La sua musica è il contrario esatto del conscious hip hop, e lui una forza inarrestabile, una manifestazione ultraterrena di business sense demoniaco e acuminata lungimiranza. Nella sua pluridecennale carriera, il Re di Compton ha lasciato il segno dei propri artigli su vari tra i progetti di punta della musica hip hop, rendendolo una delle personalità più celebrate e soprattutto più ricche dell’ambiente. Come ci è riuscito? Naturalmente con una lunga serie di mosse senza scrupoli e una totale mancanza di integrità artistica e coscienza sociale, unite alla completa maestria della sua professione, a una grande intelligenza e a uno sguardo perennemente puntato al futuro. Nonostante solo metà degli elementi di questa lista siano positivi, la vera essenza di Dr. Dre sta nel riuscire a farti accettare le sue cattiverie come parte di un personaggio supremo e ridicolo, entrambi aggettivi utilizzabili anche come chiave di lettura della sua musica. Il mito di Dre inizia prima come studente incapace e poi come membro di un improbabile gruppo (gli World Class Wreckin’ Cru) dove faceva electro-hop, un genere iper modaiolo che tentava di fondere i vecchi fasti della disco – ormai morente – con vaghe influenze hip hop per darle una patina di modernità. Nel film del 2015 Straight Outta Compton, che vorrebbe essere una biografia romanzata degli NWA ma finisce per somigliare più a uno di quei video nordcoreani di propaganda al Leader Supremo, Dr. Dre obbliga il regista a presentarvi un ragazzo che quelle cose le suona controvoglia, già formato e sognatore in spasmodica attesa del suo big break: più plausibilmente (e semplicemente), ai tempi Dre era solo uno sfigato come tanti. 

Nonostante ciò, non ci vorrà molto perché il giovane Andre si imbarchi nel suo primo progetto davvero importante: sto parlando proprio degli NWA, formati tra il 1986 e il 1987 insieme a Eazy-E, Ice Cube e Arabian Prince; di lì a poco si sarebbero aggiunti DJ Yella e MC Ren. Il gruppo produce le prime hit agli albori di quello che da lì a breve sarebbe poi stato conosciuto come gangsta rap, di cui si fanno innovatori e divulgatori con una compilation e soprattutto col primo LP Straight Outta Compton, entrato ormai nel pantheon del genere. I testi sono più duri dell’hip hop precedente, loro più arrabbiati e lanciati verso panorami di violenza e criminalità. Che il gangsta rap tratti della vita dei gangster è piuttosto tautologico, e l’aggressività che ne consegue è ormai ben conosciuta; trattando gli NWA mi voglio però soffermare su un’altra caratteristica spesso tralasciata da pubblico e critica, ma altrettanto pervasiva di Straight Outta Compton: l’incoerenza. Nei testi dei Niggaz With Attitude, la celebrazione del crimine coesiste con la denuncia delle ingiustizie da parte della polizia e del sistema giudiziario nei confronti degli afroamericani; la critica della droga e delle sostanze che ottundono l’espressione artistica coesiste con Ice Cube che si fuma sacchi d’erba, con Eazy-E perennemente sbronzo. 


“Here’s a little somethin’ about a nigga like me/ Never should’ve been let out the penitentiary/ Ice Cube would like to say/ That I’m a crazy mothafucka from around the way/ Since I was a youth, I smoked weed out/ Now I’m the mothafucka that you read about/ Takin’ a life or two, that’s what the hell I do/ You don’t like how I’m livin? Well, fuck You!”

Ice Cube, Gangsta Gangsta

“Some drop science, well I’m droppin’ English/ Even if Yella, makes it a-capella/ I still express, yo I don’t smoke weed or sess/ ‘Cause it’s known to give a brother brain damage/ And brain damage on the mic don’t manage nothin’/ But makin’ a sucker and you equal/ Don’t be another sequel”

Dr. Dre, Express Yourself

Stando alle parole del gruppo, i testi degli NWA sono rapping allo stato puro, ossia barre che scorrono lisce e suonano bene ma che vengono composte a caldo, sul momento o quasi, e che pertanto non si devono prestare a un’analisi sulla coerenza del loro messaggio. I conti non tornano, però, perché la scelta degli atteggiamenti, dei campionamenti, persino del tipo di flow e del tono di voce sembrano un po’ troppo fatti su misura al fine di raggiungere il maggior numero possibile di ascoltatori. E lo sono. Non è rapping estemporaneo, sono scelte calcolate e testi costruiti ad arte. Le invettive anti-establishment di Fuck the Police possono risuonare tanto nei ghetti quanto nei movimenti di protesta; Dopeman si pone esattamente a metà tra la denuncia degli spacciatori che vendono morte e la glorificazione del loro potere sui junkie, generando consensi da entrambi i lati della barricata; il bragging di Gangsta Gangsta e Straight Outta Compton è perfetto per blastarlo ad alto volume e farti sentire parte di una crew, ma le rime pseudo golden age di Dre in Express Yourself (con cadenza vocale e campionamenti scelti a pennello) sono perfette per essere mandate in radio senza grossa controversia, e per essere recepite anche dal pubblico più abbottonato. Gli elementi che fanno alzare le sopracciglia sono tanti. Nel 1987 c’erano due act clamorosi nel nascente gangsta rap: gli NWA e i Boogie Down Productions di KRS-One, D-Nice e Scott La Rock. Entrambi hanno testi violenti e incendiari, testimonianze della vita di strada. Informandosi sui primi si trovano notizie relative a contratti discografici, alla fondazione di etichette, alle dispute intestine per soldi e potere; informandosi sui secondi si apprende che Scott La Rock è stato assassinato 5 mesi dopo l’uscita del disco di debutto e che ha conosciuto KRS-One in un rifugio per senzatetto del Bronx, dove quest’ultimo viveva. 

Per questi motivi, vari artisti e puristi del rap hanno problemi con gli NWA, accusandoli di essere studio gangsters (ossia esponenti del gangsta rap che non sono mai stati in una gang e che non hanno mai avuto grossi problemi con la legge) e criticando le loro posizioni contraddittorie sulla droga. Ma nonostante sia vero che queste considerazioni tolgono un po’ il vento dalle vele di Straight Outta Compton, il lavoro successivo di Dr. Dre ha portato tali incongruenze a un livello così estremo e intenzionalmente ridicolo da farle diventare strumenti espressivi divertentissimi, elementi preziosi senza i quali The Chronic, il suo primo progetto solista, avrebbe perso gran parte del proprio valore. E The Chronic è uno dei migliori dischi della storia. Ma facciamo un passo indietro. Nel 1989 Ice Cube lascia il gruppo per questioni di soldi, iniziando a perseguire quella che sarà una carriera solista di molto successo; Dre resta invece col gruppo e affina le sue capacità come performer e produttore. Riprova di ciò si può chiaramente sentire nel secondo e ultimo disco degli NWA, Efil4zaggin (da leggere al contrario), che segna un primo passo verso quel gangsta rap con tematiche talmente esagerate da sfiorare il caricaturale. Il disco si divide tra dissing a Ice Cube, invettive sessiste e le classiche rime sui membri del gruppo che uccidono il mondo intero, abbandonando sempre di più le già flebili pretese di “reality rap”, termine che i membri del gruppo usavano per descrivere il loro lavoro. La produzione asseconda questa perdita di credibilità diventando più raffinata e soprattutto più lucida e croccante: un altro passo di Dre verso la vetta di The Chronic, probabilmente frenato in questo caso dall’influenza di DJ Yella. Nonostante la qualità del lavoro e la popolarità del gruppo fosse ancora alta, frizioni sempre più pesanti con Eazy-E e Jerry Heller – fondatori della Ruthless Records, casa di produzione per cui uscivano i dischi degli NWA – portarono Dre a uscire dai Niggaz With Attitude quello stesso anno e a fondare quasi immediatamente la sua etichetta insieme a Suge Knight (il suo bodyguard) e al rapper D.O.C., la Death Row Records. 

È l’inizio di un’età dell’oro. Dr. Dre perfeziona ancora di più la sua poetica rendendola ancora più vacua e quindi meravigliosa, un gioiello di scelte palesemente discutibili che tuttavia finiscono inevitabilmente per essere roboanti successi. La figura di Dr. Dre è tranquillamente assimilabile a quella di Re Mida, se Re Mida fosse stato capace di toccare l’oro da lui creato un’altra volta e trasformarlo in diamante. C’erano espressioni particolarmente potenti e catchy in un disco degli NWA, o in uno dei progetti solisti dei membri? Dr. Dre le riutilizza, parola per parola: The Chronic contiene continui callback a materiale passato, dall’espressione “real niggaz don’t die” a “no one can do it better”, da “lyrical gangbang” a “eazy-duz-it”, in questo caso usato con la duplice funzione di sfottere Eazy-E. The Chronic crea un mondo di cromo e sole californiano in cui Dr. Dre può finalmente assumere l’unico ruolo che gli si confà, quello di un Dio. La title track contiene un sample gigantesco dei Parliament? Il genere che ho deciso di creare – e l’ha creato davvero, gli è bastato un suono di sintetizzatore – lo chiamo G-Funk invece di P-Funk. Vi ricordate il Doc schierato contro le droghe di Express Yourself? The Chronic celebra la marijuana in ogni traccia: il titolo è una forma di slang per la marijuana, il simbolo di Dr. Dre diventa la foglia di marijuana – e sono convinto che Dre abbia fumato tipo tre volte in vita sua. Come dicevo in precedenza, la musica del disco è l’opposto del conscious hip hop, cannibalizza qualsiasi tema rendendolo uno scherzo il cui palese cattivo gusto è eclissato dal divertimento che riesce a creare. Per capire, immaginatevi la scena: siete arrivati alla metà del disco e finalmente avvertite il primo, flebile sentore di umanità nel campionamento di un uomo afroamericano che invita i suoi fratelli a una presa di responsabilità, ad essere gli artefici del loro futuro; la fine di questo monologo è accompagnata dal suono un po’ cheesy di un flauto che si unisce ad accordi sommessi ed ecco Lil’ Ghetto Boy, dove Snoop Dogg e Dre parlano di ragazzi incontrati per le strade con un futuro già distrutto dalle dinamiche criminali del ghetto. Due tracce dopo ecco come intro un altro campionamento sulla stessa falsariga: “You really don’t understand, do you? Hey man, don’t you realize in order for us to make this thing work, man, we’ve got to get rid of the pimps, and the pushers and the prostitutes? And then start all over again clean…”. Il campionamento viene bruscamente interrotto dall’urlo NIGGA IS YOU CRAZY!!?? e da fragorose risate, mentre i classici sintetizzatori G-Funk cominciano a ronzare. Non scoppiare a ridere è impossibile. Una volta sedato per un poco ogni impulso moralista, è assolutamente impossibile non godersi il mix di produzione luccicante, versi gustosamente preconfezionati, skit divertentissimi e momenti genuinamente creativi dato da The Chronic. Riuscire a produrre sensazioni talmente allegre ed esaltanti partendo da premesse concettuali così antipatiche è un vero e proprio miracolo, ed è per questo che ognuno degli articoli di denuncia o critica al disco che ho letto negli anni ha avuto più o meno lo stesso effetto di togliere un bicchiere d’acqua dall’oceano. 

Una volta scalata la vetta come solista, una volta raggiunta la cima delle classifiche, a Dr. Dre non restava che trovare un modo per mantenere lo status. Non avendo grandi vizi né dipendenze, distruggere il lavoro fatto era quasi impossibile, ma galleggiare non era certo abbastanza per un egomaniaco di tali proporzioni. Ecco quindi il personaggio definitivo di Dr. Dre, quello del producer serioso e dedicato al business, l’uomo maturo che appende al chiodo cappellini e giacchette dei Lakers per maglie nere aderenti su un fisico scolpito. Col suo cervello, le sue abilità e la sua capacità di intercettare le direzioni artistiche e commerciali dell’hip hop questo era probabilmente il ruolo più intelligente da ricoprire, sulla lunga distanza. E quindi produce Snoop Dogg, produce Eminem, produce Mary J. Blige, produce Missy Elliott, produce 50 Cent, produce Xzibit. Produce Kendrick Lamar. Il Kendrick Lamar rivoluzionario del linguaggio hip hop, così articolato e conscious, così interessato alle questioni sociali. Per alimentare la narrativa del Dre perfezionista che non pubblica niente se non è un lavoro incredibile pubblica un suo disco ogni 10 anni circa, e matematicamente ciascun disco è un prodotto solidissimo, strategicamente perfetto. 2001, pubblicato nel 1999, gioca tutto sulla nostalgia per la vita da strada (mai vissuta) dei bei tempi d’oro; Compton, pubblicato nel 2015, straborda di giovani artisti di successo tra i feature, e fa sembrare il progetto come un tributo della nuova generazione al grande patriarca del rap. Persino i suoi progetti falliti funzionano: qualche anno prima di Compton doveva uscire un disco di Dre chiamato Detox; ci sono stati annunci per anni, ma poi a detta del nostro “la qualità non era abbastanza alta” e quindi il disco non ha mai visto la luce. Guarda caso, la narrativa dell’artista esigente ne esce potenziata. C’è poi il caso di Beats by Dre, suo brand di prodotti audio merdosissimo, con un rapporto qualità prezzo imbarazzante; però poi gli dà un design alla moda, gonfia bassi e alti per fregare l’ascoltatore medio e riesce comunque a sfondare. Questo è il mito di Dre, un’ascesa dovuta a una commistione perfetta di bugie ed effettiva abilità: come se ti suonasse alla porta un venditore in cravatta a strisce e camicia a maniche corte, riuscendo a intortarti e venderti la sua linea di coltelli senza filo fatti con scarti industriali. Poi il giorno dopo guardi il telegiornale e vedi che quello stesso venditore ha vinto il premio Nobel per la fisica, e i coltelli te li stava vendendo per divertimento. 

Condividi questo articolo:
David Cappuccini
David Cappuccini