CONTAINER BELLO

PETRA HERMANOVA HA RIDEFINITO IL CONCETTO DI DRONE

PETRA HERMANOVA – IN DEATH’S EYES

Unguarded

2023

Drone folk, Neoclassical Darkwave

Musicista e visual artist ceca, giovane e intensa, Petra Hermanova è una cantante e autoharpista (un cordofono molto rappresentato nella storia del folk appalachiano) attiva in solitaria dal 2018 e oggi alle prese con il suo debutto su long play, un disco decisamente, decisamente riuscito. Hermanova è stata svezzata come vocalist nel campo art pop/trip hop tramite il progetto Fiordmoss, che ha fatto un certo rumore in Repubblica Ceca con il buon Kingdom Come. Il suo approccio solista, però, si è emancipato in tre minuti dalla prospettiva clubby grazie a un paio di singoli usciti nel 2020 titolati Lacrimosa e Liquid of the Eye, pezzi in cui la Nostra canta briciole di poesia adagiate sullo scintillante timbro dell’autoharp suonata per accordi, protagonista strumentale di una performance scenografata da inquietantissimi tappeti di organo a canne. Questa impostazione ethereal, per quanto affascinante, non differiva troppo da moltissime voci del genere, ma conteneva già in sé il germe di una grandeur che solo quest’anno è uscita allo scoperto. 

In Death’s Eyes esce in questo tragico 2023 come nona pubblicazione per la piccola Unguarded, etichetta berlinese, forte di un sostanzioso grant da dedicare alle visual d’accompagnamento, ma soprattutto di un progetto di poetica e scrittura molto più sviluppato e ambizioso. Hermanova ha deciso di sfruttare i suoi nuovi mezzi per gettare via tutte le zavorre della forma pop e dedicarsi a una ossessiva musica scura e drammatica, che fa una grande leva sull’impianto strumentale scelto a corredo (l’autoharp, l’organo di Ladegast della cattedrale di Merseburg, un coro a dodici voci) e liquefa ogni geometria ritmica in un bacino di droni che reggono tutta la struttura del pezzo. Ciò che risulta da queste scelte è terrificante: il modo in cui il Ladegast affronta l’estensione dei due brani più lunghi, Two Deaths e Aurochs’ Lament, è fantasmatico e allo stesso tempo fisico, presente e urgente. Le note più basse vibrano come una radiazione cosmica, le melodie contorte dell’autoharp e della mano destra danzano a costruire un’esperienza sonora che ricorda e in certi punti compete con la Nico di All That is My Own e di certi passaggi di The Marble Index – mentre talvolta degrada in una bolgia di freeness dissonante e agghiacciante. La potenza espressiva dei brani, però, non viene generata solo da una dilatazione per droni dello stile Päffgen – e la scrittura di Hermanova va ben al di là delle proporzioni da opera che assume l’organo nei brani più concitati. Le tre più grandi armi a disposizione della musicista ceca sono la sua voce, la sua vena poetica e soprattutto la sua autoharp, che da sola dà uno spin totalmente diverso a tanti momenti che altrimenti sembrerebbero solo dei pezzi riusciti di darkwave neoclassica. Il concetto di drone si ridefinisce proprio a contatto con questo strumento, suonato ossessivamente sugli stessi accordi (dinamica che ritroviamo molto presente in Here the Harpies Make Their Nest, Aurochs’ Lament, Black Glass), non va di fatto per bordoni, ma ogni pennata riesce a restituire quell’effetto nauseante e salino delle increspature del mare quando sulla sua superficie vanno ad arrotolarsi le onde. Le melodie trascendono molto spesso la linearità e si trasformano in un amalgama sparsa ma coesa: da questo punto di vista Hermanova prende le distanze da molti grandi act della darkwave neoclassica (penso ai Black Tape for a Blue Girl o agli Amber Asylum) e, insistendo sulla sua buia orizzontalità, si associa nella struttura a prove come quelle dei Menace Ruine (per fare un esempio un po’ più in là con gli anni) o di Lingua Ignota (questo recente e molto azzeccato). Il sound dell’autoharp, inoltre, aggiunge spesso un sapore molto più legato alle belle forme di free folk e drone degli anni ‘90 e ‘00, su tutti i Charalambides e i Natural Snow Buildings. C’è anche di più negli incubi di Hermanova: la psichedelia distorta e grossolana di Perforatum e della coda di Aurochs’ Lament che trascende in noise, il continuo ritorno all’horror ecclesiastico suonato dall’organo e ribadito nelle scampanate a chiosa dell’album, l’irrisolta tensione tra liturgia, morte e terra che traspare nelle cuciture tra le declinazioni barocche dell’organo, i testi e i canti struggenti e morbosi, il continuo ritorno al suono più materico e brillante dell’autoharp.

Per quanto la tessitura di composizione sia semplice e spesso lineare, c’è veramente tanto da dire su In Death’s Eyes. C’è veramente tanto da farsi dire da In Death’s Eyes. Quando un disco riesce a pesare così tanto sul tuo cuore, e con questa nonchalance, non puoi che dedicargli un posto nelle tue scelte dell’anno e una lunga serie di riascolti. Che sia l’inizio di una vigorosa carriera o un unicum per un’artista che prenderà altre strade, poco importa: l’importante è avere questa perla a portata di orecchio. Non perdetevela.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M