ORANSSI PAZUZU – MESTARIN KYNSI
«Ukko! Ukko, dio supremo,
Elias Lönnrot, Kalevala
schiaccia il popol di Kaleva
con la grandine di ferro,
dalla punto d’ago aguzza!
Od uccidi coi malanni
quella misera progenie,
i mariti nei cortili
e le mogli nelle stalle!»
Mentre scrivevo questa recensione mi sono reso conto che sarebbe stato meglio ripartire dal principio. Dopo aver cancellato molto di quello che avevo scritto più volte e aver sfogliato distrattamente qualche runo del Kalevala per chissà quale ragione, ho rimesso su Muukalainen puhuu (che non riascoltavo da una vita, e che mi ha tirato il solito cartone in faccia condito da una spruzzata di orrore cosmico), e da lì ho iniziato a chiedermi come abbiano fatto gli Oranssi Pazuzu a tirare fuori un disco così interessante, divertente e conturbante come Mestarin kynsi, uscito a 11 anni di distanza dal loro LP d’esordio, imbottigliando ancora una volta una scintilla che pensavo avessero perso completamente.
La risposta è arrivata anche abbastanza rapidamente: tra i due album non ci sono poi così tante differenze. Una discrepanza, però, è fondamentale nel comprendere la rivoluzione copernicana del gruppo finlandese: si è passati dall’adorare Satana facendo largo uso di psicotropi vari all’allucinarsi talmente tanto grazie all’uso delle sopracitate droghe da ritrovarsi infine di fronte al gran caprone.
Ovviamente, la questione è in realtà un po’ più complessa di così; ma è innegabile come in Mestarin kynsi, che segna tra l’altro l’approdo del gruppo per l’etichetta americana Nuclear Blast, la componente metal che aveva così pesantemente formato il sound degli Oranssi Pazuzu sia ora diventata un elemento di contorno utile a espandere le tribolazioni sciamaniche del gruppo, che in sei tracce condensa adesso una varietà di umori molto più vicini a, per dire, i Circle (un altro gruppo di poveri drogati finnici) che non i conterranei Thy Serpent (non che ci avessero mai avuto molto a che fare, effettivamente).
Chiaro, il raschiare da goblin del cantante Juho Vanhanen e l’esplosione tellurica delle chitarre di Ilmestys farebbero pensare a un’ennesima riproposizione di quello che avevamo già sentito nelle stancanti divagazioni di Värähtelijä, un disco che peccava di una direzione precisa, tirato come una corda a metà tra il cosmo e la bestialità e incapace di risolversi in nessuna delle due direzioni. Ilmestys, invece, ci riesce benissimo: la tensione si accumula nel primo opprimente arpeggio di chitarra e nei gorgoglii del sintetizzatore per concretizzarsi in uno schiaffo granitico che si ripete con la foga dei migliori Aluk Todolo. In realtà, nemmeno il paragone con il trio francese regge particolarmente bene: il sound degli Oranssi è più scuro e paludoso, e i riff circolari che si accumulano danno più l’impressione di uno spaventevole vis à vis con degli occhi iniettati di sangue scintillanti nel buio che non a un sudicio sacrificio rituale. Tyhjyyden sakramentti, che non ho idea di cosa voglia dire ma probabilmente è roba cattiva, continua su quegli stessi binari: i riff claustrofobici si accartocciano fino a quando una sbandata simil-Irrlicht dei sintetizzatori e un nuovo riff fanno emergere il poderoso gorgoglio di Vanhanen, che qui sembra ancora più inquietante e minaccioso di quanto non fosse nella prima traccia.
Come in Värähtelijä (che a quanto pare vuol dire “vibratore”, e chi sono io per contraddire?), anche in Mestarin kynsi il generoso minutaggio permette agli Oranssi di esplorare a pieno tutte le possibilità del loro songwriting: il pezzo più lungo dell’album, Uusi teknokratia, si snoda labirinticamente nei suoi dieci minuti tra accumulazioni di sample vocali femminili, sussurri di flauto, echi lovecraftiani e incessanti mazzate a tutta potenza fino a trascendere il caos primordiale in un vortice di ululati di chitarra e spegnersi in terrificanti rumorini intercettati dai pick-up misti a dronazzi realizzati tramite chissà quale stregoneria. Avevamo detto “come in Värähtelijä”, ma il paragone non è del tutto corretto: gli Oranssi sono estremamente maturati negli ultimi quattro anni, forse con la complicità dell’esperienza Waste of Space Orchestra, e le divagazioni sono state ridotte all’osso in Mestarin kynsi: prestare orecchio alle continue mutazioni di Oikeamielisten sali, che si muove da inserti d’archi a dei riff di chiara ascendenza black fino a chiudersi con un drumming tribale à la Neurosis di Cleanse smorzato dal fade-out più psichedelicamente anni settanta che riusciate ad immaginare.
Ma il gruppo non ci concede un attimo di respiro: Kuulen ääniä maan alta, il brano più didascalicamente vicino a quello che sarebbe successo se i Neu! avessero avuto a disposizione le pedaliere dei Bathory, si chiude in una scintillante caverna di cristalli sintetici, oramai sicuro di avere intrappolato l’ascoltatore nel sottosuolo, prima di lacerare bestialmente ogni pretesa di umanità con l’attacco (forse il più esplicitamente metal di tutto il disco) di Taivaan portti – ironicamente, “la porta del paradiso”. È un assalto furioso e incessante, che nemmeno la progressiva apertura dei pads riesce a smorzare: anzi, l’effetto di insieme è ancora più terrificante e folle, un affronto alle divinità che si perpetra nei blast beat e nei ruggiti furiosi sotterrati in un arazzo sonoro incomprensibile. Mentre la struttura collassa su se stessa come se fosse una belva finalmente braccata, ci rendiamo finalmente conto di come ci abbia ferito l’artiglio del Maestro (appunto, Mestarin kynsi): è un taglio netto, ipnotico nella sua chirurgia e allo stesso tempo ferale e inguaribile. L’unica soluzione per lenire il dolore è rimettere su il disco, portare a termine il rituale ancora una volta.