ANOHNI AND THE JOHNSONS – MY BACK WAS A BRIDGE FOR YOU TO CROSS

Rough Trade

2023

Soul, Cantautorato

Negli ultimi decenni sono pochi i nomi, al di fuori di quel micromondo di star del pop che appaiono su ogni copertina, a risultare affascinanti per la stampa non specializzata come quello di ANOHNI. Protegée di numi tutelari come Lou Reed e David Tibet, la cantante inglese naturalizzata americana si è distinta in tutti questi anni per un approccio alla propria musica fuori dalle regole ma contemporaneamente capace di trovare il modo di insidiare le classifiche. L’ultimo disco con la sua band, i Johnsons, risaliva al 2010; l’ultimo sforzo solista, quell’Hopelessness che si imponeva di trasfigurare il pathos cameristico del self-titled del 2000 o di I Am a Bird Now, era stato pubblicato nel 2016 – praticamente una vita fa. Nel mezzo, il travagliato coming out e varie comparsate, collaborazioni e progettini collaterali, compresa una deliziosa versione di Candy Says dei Velvet Underground emersa sotterraneamente tra le pieghe del videogioco Immortality l’anno scorso, avevano tenuto la cantante a galla nonostante la mancanza di nuovo materiale inciso. Finalmente, a marzo è iniziata a trapelare la possibilità che ANOHNI stesse registrando qualcosa; a giugno è stato annunciato My Back Was a Bridge for You to Cross, che è infine uscito il 7 luglio sotto l’egida del produttore Jimmy Hogarth. I Johnsons, per l’occasione, sono stati smontati e riassemblati quasi completamente: alla formazione si sono aggiunti ora diversi turnisti che provengono da ogni tipo di background, dai dischi ambient di Brian Eno alle partecipazioni agli sforzi indie folk di Phoebe Bridgers. Non manca nemmeno l’ospitata d’onore, incarnata qui da William Basinski nel ruolo di sassofonista.

Nel presskit, strapieno di dichiarazioni appassionate sul processo creativo dell’album e sui suoi intenti, spunta in due paragrafi il chiaro riferimento a What’s Going On? di Marvin Gaye: lo scopo dichiarato di ANOHNI è quello di creare una sorta di ponte che raggiunga e riecheggi, oltre cinquant’anni dopo l’uscita, degli stessi concetti di idealismo ecologista e pacifista che avevano caratterizzato in maniera rivoluzionaria il capolavoro di Gaye. D’altronde, anche la foto in copertina è quella dell’attivista LGBTQ Marsha P. Johnson, una delle figure di spicco dei moti di Stonewall ed eroina personale di ANOHNI; il volto della drag queen, raffigurata in un semplice tanto quanto emozionante bianco e nero, riporta immediatamente a quei giorni tumultuosi del secolo scorso e alle questioni, già allora urgenti, che ancora oggi sono sul banco di tribunale dell’opinione pubblica eternamente schierata in pro e contro.
Più che dai testi, però, questo collegamento emerge soprattutto nell’impianto musicale, per il quale ANOHNI e Hogarth (che rappresenta il primo collaboratore in fase di scrittura con la cantante dall’inizio della sua carriera) hanno pescato a piene mani dal soul dei primi anni ‘70. Il più fulgido esempio di questa ricerca nel passato è sicuramente la maniera in cui i lick di chitarra della opener It Must Change si accavallano con i crescendo degli archi in maniera ipnotica, sotto il beat soffuso della batteria e delle percussioni. Fortunatamente, il disco non si muove unicamente in questa direzione: c’è spazio anche per brevi intermezzi pseudo-rumoristici (Go Ahead) come per composizioni più classicamente affini allo stile dei vecchi dischi di ANOHNI (You Be Free). È innegabile, però, che i numeri più vicini allo stilema soul (Can’t, Rest, Why Am I Alive Now?) occupino la maggior parte dell’album e che ne costituiscano l’ossatura tematica in maniera abbastanza uniforme, rimpastando le varie scelte stilistiche del catalogo Motown. L’uso preponderante degli archi a supporto della formazione rock classica, ad esempio, viene adoperato con grande riverenza nei confronti dei dischi della casa discografica di Detroit; ma il timbro che ne viene fuori conserva la stessa cupezza umbratile dei precedenti dischi dei Johnsons, invece che risultare gioioso e magniloquente.

C’è da dire che, seppur non esaltante, questo impianto è sicuramente funzionale allo storytelling dei testi di ANOHNI: My Back Was a Bridge for You to Cross, a un occhio attento, suona come un’ode nostalgica a tanti episodi della vita della propria autrice; e di come alcuni di questi capitoli creino in ANOHNI preoccupazione e inquietudine perché, paradossalmente, sembrano essersi chiusi improvvisamente e senza code, e come altri trascinino con sé conseguenze che vanno al di là della stessa vita della cantante. Due esempi che spiegano questa straziante dicotomia sono Sliver of Ice, che racconta una delle ultime chiacchierate con l’amico Lou Reed; e You Be Free che, invece, rimugina sulla difficoltosa ricerca dell’identità della cantante e di come si augura che il proprio corpo, già cadavere come quello delle altre figure femminili della vita di ANOHNI, sia il ponte per le generazioni future attraverso cui superare il divario che separa l’accettato e il discriminato.

Per quanto gli intenti del disco siano lodevoli, e la musica al suo interno sia solidamente arrangiata ed eseguita, non appena My Back Was a Bridge for You to Cross si spegne non si ha l’impressione di avere ascoltato un gran disco, anzi: sembra quasi di aver assistito a una involuzione dell’ANOHNI artista di concetto, oltre che musicista. My Back Was a Bridge for You to Cross aveva le potenzialità per essere un balzo nel futuribile, dove gli stilemi a cui aggrapparsi per cercare la continuità con i grandi idoli sarebbero potuti essere cannibalizzati, rigurgitati, resi fantasmi con cui confrontarsi: invece, al terzo mid-tempo swingato dove la chitarra e il basso fanno da vertebre per questo o quell’orpello strumentale la sensazione di stanchezza creativa si fa via via più pesante e opprimente, come anche il fatto che il pathos espresso dalla voce cantante perda, col susseguirsi dei brani, la propria intensità ogni qualvolta venga riproposta, centrale e importante, nello stesso modo. Si ha l’impressione, insomma, che ANOHNI stia cercando di esprimere una grande moltitudine di sfumature utilizzando sempre lo stesso colore; e la delusione scaturisce dal fatto che, guardando nel suo catalogo, questi stessi colori appaiano immediatamente in tutta la loro brillantezza. Sembra che l’incendiaria rivoluzionaria che si sbizzarriva, con tutti i suoi limiti, su Hopelessness sia stata domata e ridimensionata a un nichilismo indifferente e a un vago e insoddisfacente monito per il futuro. E forse è questa la realizzazione più tristemente sconvolgente che si ha ascoltando My Back Was a Bridge for You to Cross: che ANOHNI abbia scritto una sorta di epitaffio, un’altra foglia morta in cima a un tappeto di foglie morte, invece che far fiorire nuovi, intriganti semi di protesta.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala