NEFERTITI, THE BEAUTIFUL ONE, HAS GONE

Il 5 aprile, undici giorni dopo il suo ottantanovesimo compleanno, è morto Cecil Taylor.

Per chi ha almeno una superficiale conoscenza dei punti fermi del jazz più avant-garde, il nome non è certamente nuovo – quanto sia stato fondamentale il suo contributo alla nascita, e successivamente allo sviluppo, del free jazz e della New Thing è stato ripetuto in innumerevoli salse da ancor più innumerevoli fonti a partire dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi. Eppure, il pubblico ha sempre mostrato di preferire parlare della musica di Taylor piuttosto che ascoltarla e provare a capirla.

Cecil Taylor, d’altra parte, non ha mai fatto nulla per venirgli incontro: la sua musica è sempre stata fortemente individualista e il suo carattere caparbiamente iconoclasta, insofferente a qualsiasi possibile istituzione orbitasse intorno alla sua arte (l’accademia, la tradizione jazz, il music business, la stampa, la critica, perfino i suoi fan). Amava la musica classica, ma è stato pizzicato più volte a deridere in privato Stravinskij; se un astante di una sua performance proponeva un parallelismo tra la sua musica e quella di Ravel, chiedeva causticamente perché avesse citato proprio Ravel e non Ellington. Se un giornalista intervistandolo chiedeva quale fosse il suo rapporto con il pubblico, rispondeva seccamente che non ve n’era uno: il pubblico amava la sua musica, non lui. Spesso i suoi periodi di lontananza dallo studio di registrazione venivano spiegati, più che da una mancanza di creatività, dalla difficoltà nel trovare l’etichetta giusta per cui incidere – e d’altronde Taylor, dichiaratamente sempre molto soddisfatto di tutti gli album pubblicati, era invece molto critico e scettico sulle capacità dei produttori nel dare i suoni giusti alla sua musica.

Sempre sensibile ai temi della discriminazione del jazz da parte dell’intellighenzia musicale e del razzismo che ha impedito a lungo al jazz di essere considerato una forma d’arte colta al pari della musica classica europea, Cecil Taylor ha sfoggiato orgogliosamente, per tutta la sua vita, il proprio retaggio culturale nero. Il suo stile pianistico, inoltre, è stato fin dalle sue prime apparizioni peculiare e unico, con influenze provenienti tanto dalla contemporaneità europea quanto (e soprattutto) dalla tradizione rurale jazz e blues afro-americana. Nato il 25 marzo 1929, Cecil Taylor è cresciuto in una famiglia agiata dove ha imparato a conoscere le arti, la letteratura e la poesia, che spesso Taylor avrebbe utilizzato in seguito come accompagnamento alle sue improvvisazioni o come liner notes dei suoi dischi. Grazie al padre si innamora della cultura e del folklore del popolo nero afro-americano, mentre la madre (ballerina e pianista di formazione classica) lo fa avvicinare alla danza, al teatro, e soprattutto alla musica. È lei che lo inizia al pianoforte all’età di cinque anni, con l’obiettivo (visto con molta sufficienza da Taylor a posteriori) di renderlo un giovane virtuoso dello strumento. Ma Taylor è anche affascinato dalle percussioni per via dell’ascolto di Chick Webb, e proprio per questo studia parallelamente le percussioni con il marito della sua insegnante di pianoforte, ai tempi timpanista per l’orchestra di Arturo Toscanini.

La sua estetica, per i primi vent’anni della sua vita, rimane comunque dominata dall’influenza della musica classica europea. Paradossalmente, è solo quando comincia a studiare al New England Conservatory che emerge con prepotenza nel suo linguaggio musicale l’eredità nera del jazz. Taylor studia e impara le tecniche della musica colta contemporanea di Maurice Ravel, Béla Bartók, Iannis Xenakis, Igor Stravinskij e Anton Webern, ma le rielabora in una musica improvvisata fortemente ritmica e percussiva, influenzata tanto da pianisti jazz come Thelonious Monk, Lennie Tristano, Bud Powell, Dave Brubeck e Horace Silver, quanto dalla fisicità e sinuosità del teatro e della danza, quanto dal suo studio delle percussioni (cosa che porterà la critica a coniare la ormai abusata, ma azzeccatissima, formula eighty eight tuned drums per riferirsi al suo stile pianistico). Tuttavia, per Cecil Taylor il modello di riferimento maggiore – sia come pianista che come artista tout-court – è soprattutto Duke Ellington. È a lui che si rifà nella disposizione spaziale delle linee dei vari strumenti, nelle dinamiche e nei colori delle sue parti di piano, nella vitalità dell’improvvisazione collettiva, nella visione musicale d’insieme dei suoi pezzi. E, soprattutto, si rifà a lui nell’idea di integrare in una musica essenzialmente nera idee e forme riprese dalla musica europea. 

Everything I’ve lived, I am…I’m not afraid of European influences. The point is to use them—as Ellington did—as part of my life as an American Negro.

Tutto questo, paradossalmente, gli ha soltanto permesso di alienarsi tanto l’audience più conservatrice del jazz (che talvolta è arrivata perfino a negare il carattere intrinsecamente jazz della sua opera) quanto il pubblico bianco legato alle accademie (che, quando si è accorto di lui e ha accolto calorosamente la sua musica, ne ha comunque spesso sminuito l’affinità con la musica nera).

La carriera di Cecil Taylor comincia di fatto solo dopo il diploma in composizione e arrangiamento al conservatorio, quando si trasferisce a New York. Nel novembre 1956 viene lanciato da una delle prime esibizioni jazz dell’ormai leggendario Five Spot, ai tempi solo recentemente reinventatosi come jazz club, con una performance in cui devastò letteralmente il pianoforte da quattro soldi del locale semplicemente suonandolo. Fino agli inizi degli anni Sessanta, Cecil Taylor è una sorta di incubo per molti colleghi jazzisti. Tutti gli riconoscono una capacità tecnica fuori dal comune e una sintassi improvvisativa senza precedenti né pari per l’epoca. Cecil Taylor gioca continuamente con le dinamiche, con i registri e con le pulsazioni della propria musica, utilizzando frammenti melodici pre-composti (le unit structures) come boe di riferimento per le sue complesse improvvisazioni in fortissimo con figure arpeggiate e scale cromatiche, mentre il materiale tematico viene ripartito in sezioni separate da dissonanti poliritmi di cluster diatonici (può ricordare la musica di Henry Cowell, ma l’abilità di Taylor è di molto superiore). Il fatto che Taylor cominci a cimentarsi nell’improvvisazione quando la sua tecnica al pianoforte è già estremamente solida rende il suo stile assolutamente alieno. Quando suona in gruppo, inoltre, Taylor complica il passo ritmico del brano in modo da imitare, nel dialogo con gli altri strumenti, le movenze dei ballerini in un balletto; cosa che inevitabilmente rende infernale sostenere una session con lui per musicisti non altrettanto preparati tecnicamente. Nei primi dischi come Jazz Advance (1956) e Looking Ahead! (1958), incisi con Buell Neidlinger al contrabbasso, Denis Charles alla batteria e Steve Lacy al sassofono, le ambizioni avant-garde di Taylor sembrano intrappolate dalle ritmiche squadrate e più tradizionali di Neidlinger e Charles, evidentemente incapaci di sostenere con pulsazioni adeguatamente libere il fraseggio già disinibito di Taylor, anche nelle rivisitazioni del repertorio di Monk, di Ellington o del canzoniere di Cole Porter. Sunny Murray ricorda addirittura un aneddoto successivo in cui un gruppo jazz che provava al Cafe Roue, vedendo entrare Cecil Taylor, mise via i propri strumenti a metà dell’esibizione per non rischiare di suonare con lui.

Pochi, tuttavia, ne mettono in discussione il talento – tra questi si ricorda Miles Davis, che lo stroncò in una storica blind session del 1964. Diversi anzi si esprimono esplicitamente in termini entusiastici, come John Coltrane, che suona con lui nel 1958 su una session pubblicata con il titolo Hard Driving Jazz (poi riedita nel 1963 sotto il titolo di Coltrane Time per approfittare del successo del sassofonista), o lo stesso Buell Neidlinger. Nel 1961 Gil Evans, obbligato per questioni contrattuali a pubblicare un seguito del classico Out of the Cool, nel tentativo di sponsorizzare la musica di Cecil Taylor fa incidere metà dell’album Into the Hot al suo quintetto, all’epoca comprendente Sunny Murray alla batteria, Henry Grimes al basso, Archie Shepp al sax tenore e Jimmy Lyons al sax alto. Questo è il primo gruppo di musicisti che riesce a instaurare un vero dialogo con le intenzioni di Cecil Taylor: soprattutto nella figura di Jimmy Lyons, Taylor trova un compagno capace di leggere attraverso le sue intricate trame improvvisative, riuscendo a seguirlo negli impervi turbinii delle sue performance, nel frattempo rendendole più decifrabili grazie a un timbro riconoscibilissimo e a un gusto melodico – per quanto obliquo – fortemente legato al bebop di Charlie Parker.

Taylor, Lyons e Murray si esibiscono in trio fino al 1963, quando Murray se ne va per concentrarsi sulle proprie ambizioni come musicista dopo aver realizzato di non essere all’altezza di ciò che richiedeva la musica di Taylor. A questo periodo risalgono le prime registrazioni fondamentali di Cecil Taylor, vale a dire il concerto al Cafe Monmartre di Copenaghen (edito integralmente su Nefertiti, the Beautiful One Has Come) e la splendida Four eseguita con la collaborazione del sax di Albert Ayler (raccolta sul box set Holy Ghost).
Il periodo maggiore di Cecil Taylor comincia qui, e durerà all’incirca fino alla morte di Lyons nel 1986. Negli anni Sessanta, Taylor pubblica i suoi due classici Blue Note che sono tuttora i dischi più famosi del suo repertorio, vale a dire Unit Structures e Conquistador! (1966), con una formazione di sette e sei musicisti rispettivamente. Con due contrabbassi (Henry Grimes e Alan Silva, che suonano rispettivamente con le dita e con l’archetto lo strumento) a dialogare nei registri bassi e con sax e tromba (e l’oboe e il clarinetto di Ken McIntyre nel caso di Unit Structures) a destreggiarsi nei registri alti, mediati quindi dal lavoro di Taylor che percorre tutta l’estensione della tastiera, sono questi i dischi che hanno mostrato più di ogni altro il livello di perfezione formale raggiunto nel rielaborare le complesse architetture strutturali dell’orchestra di Ellington in un contesto free jazz.

Dopo quelle due pubblicazioni seguono diversi anni di silenzio. Cecil Taylor ricomincia a pubblicare musica solo alla fine degli anni Sessanta, entrando così nel periodo in assoluto più prolifico della sua carriera. Negli anni Settanta vedono la luce decine di registrazioni (specialmente live, ma non solo), sia in solo che in formazioni più o meno estese: tra gli altri, si ricordano il concerto Nuits de la Fondation Maeght del 1969, con Sam Rivers al sax tenore e soprano al fianco di Jimmy Lyons; Silent Tongues del 1975 e Air Above Mountains del 1977, per pianoforte solo. Infine, il decennio si chiude con le essenziali testimonianze della Cecil Taylor Unit date dall’album in studio Cecil Taylor Unit (1978) e dai live Dark to Themselves (1976), One Too Many Salty Swift and Not Goodbye (1980) e It Is in the Brewing Luminous (1980).

Se le performance in solo mostrano un percorso di evoluzione di un’arte dell’improvvisazione sempre più unica, in cui Art Tatum e Herbie Nichols collidono con Olivier Messiaen e Alexander Scriabin, la musica della Cecil Taylor Unit è in assoluto il momento più esaltante dell’intera carriera di Cecil Taylor come leader di ensemble jazz, seconda solo a quella immortalata nei due capolavori Blue Note degli anni Sessanta. In particolare il gruppo allestito tra il 1978 e il 1981, con la selvaggia base ritmica di Sirone (basso) e Ronald Shannon Jackson (batteria) e con il violino di Ramsey Ameen, ha raggiunto vette di astrattismo e di estremismo sonoro rare per un gruppo free jazz, senza perdere comunque (nemmeno nei momenti più densi) il lirismo che ha sempre contraddistinto la musica di Taylor.
L’ultimo disco inciso con Jimmy Lyons prima della sua morte è stato Winged Serpent (Sliding Quadrants) (1984), registrato con una big band di undici elementi provenienti sia dall’America che dall’Europa (e non a caso chiamata Orchestra of Two Continents). L’album continuava l’operato della Cecil Taylor Unit in un contesto ulteriormente allargato, ma nello spasmodico tentativo di recuperare e sfoggiare la propria eredità africana Taylor arriva a sfiorare le bizzarrie di esotismo dell’Art Ensemble of Chicago.

Dopo il 1986, Cecil Taylor si trasferisce per un po’ in Europa. Nel 1988 viene invitato anche a un festival free jazz a Berlino co-organizzato dall’etichetta FMP, con cui si esibisce con la crema dei musicisti free jazz e dell’avanguardia improvvisativa d’Europa, che oltretutto dalla musica solipsista e incompromissoria di Taylor aveva preso ben più di uno spunto in passato. I concerti con Derek Bailey (Pleistozaen mit wasser), Paul Lovens (Regalia), Tony Oxley (Leaf Palm Hand), la European Orchestra (Alms / Tiergarten (Spree)) o anche in solo (Erzulie Maketh Scent) vengono pubblicati integralmente in un box set di undici dischi intitolato semplicemente Cecil Taylor in Berlin. Immediatamente decretato nel 1990 come disco jazz dell’anno dalla critica tedesca, è forse uno dei lavori più acclamati dal pubblico free jazz più oltranzista e dai fan di Taylor meno legati al panorama jazz in senso stretto, e per un motivo: questo box set contiene le improvvisazioni più radicali, criptiche e indecifrabili dell’intera carriera di Taylor. La collaborazione con musicisti tedeschi e inglesi ammutolisce la pronuncia ritmica afro-americana della musica di Taylor, in favore di una sensibilità più astratta e tipicamente europea: non è sicuramente al livello del miglior Taylor anni Sessanta e Settanta, ma almeno il set con Paul Lovens (dove il duetto piano/batteria dà risultati sorprendenti) e quello con l’European Orchestra sono da annoverare tra i momenti migliori della musica di Taylor negli anni Ottanta.

Il successo di critica di questa pubblicazione convince Cecil Taylor a tornare in Europa nel 1990, dove registra Celebrated Blazons (1990) in un trio con William Parker e Tony Oxley, Nailed (1990) in quartetto con Evan Parker, Tony Oxley e Barry Guy, e quindi il concerto per solo piano The Tree of Life (1991). Cecil Taylor procede con convinzione nell’esplorazione di un linguaggio completamente unico, ma per tutto il decennio non produce più nessun album che offra particolari spunti inediti alla sua ormai sterminata discografia.

È solo nel settembre del 2000 che si smuovono le acque. Prima un nuovo concerto per pianoforte solo intitolato The Willisau Concert, e successivamente l’esibizione a fianco dell’Italian Instabile Orchestra (The Owner of the River Bank) introducono le prime importanti novità da una ventina d’anni a questa parte. Il primo album va annoverato come uno dei vertici della sua produzione solista: Taylor ha ormai oltre settant’anni, e perciò parte della furia espressionista che animava le improvvisazioni di trent’anni prima viene trasfigurata in una sensibilità più lirica e serena; il secondo si colloca invece nella gloriosa tradizione delle sue opere per ensemble più estesi come Winged Serpent e Alms / Tiergarten. Da allora, le nuove uscite accreditate a Cecil Taylor erano state perlopiù riedizioni di classiche registrazioni del passato, o vecchi concerti inediti rispuntati nei cassetti di qualche studio di registrazione. D’altra parte, Taylor continuava sì a esibirsi, ma i suoi concerti non suscitavano più il clamore discografico dei decenni passati: l’ultimo toccante momento del suo repertorio live che aveva ricevuto un po’ di attenzione è stato probabilmente il commovente tributo a Ornette Coleman il giorno del suo funerale.

Contando anche l’età avanzata di Taylor, non ci si aspettava di certo un ritorno sulle scene, o un nuovo folgorante capolavoro che ridefinisse le coordinate del pianoforte jazz; ma a prescindere da tutto, rimane il fatto che il 5 aprile è scomparsa una delle icone più grandi e affascinanti della musica del Novecento, aldilà di ogni barriera di genere e stile. Il lascito di Cecil Taylor, per quanto il suo non sia mai stato un fenomeno culturale diffuso quanto quello di un Miles Davis, di un John Coltrane o anche solo di un Ornette Coleman, è incalcolabile.

È impossibile pensare il pianoforte jazz degli ultimi quarant’anni senza considerare le profonde innovazioni apportate da Taylor allo strumento (da Andrew Hill, a Horace Tapscott, ad Anthony Davis, passando per Matthew Shipp e Myra Melford, e pure per fenomeni contemporanei dell’avant-jazz come Matt Mitchell, quasi qualunque pianista jazz ha pagato qualche debito nei suoi confronti), anche se il suo peculiare stile improvvisativo ha fatto proseliti anche al di fuori del mondo dei pianisti. Musicisti ai confini tra il jazz e la musica contemporanea come Anthony Braxton, o giganti della musica colta americana come Conlon Nancarrow non hanno mancato di esprimere il loro apprezzamento e la loro stima per la musica di Taylor. E anche nel rock, almeno concettualmente, la statura di Taylor è stata ampiamente riconosciuta. Mike Ratledge ha conosciuto il jazz – che ha influenzato profondamente l’opera dei Soft Machine – proprio tramite la musica di Cecil Taylor; John Cale e Lou Reed nelle loro improvvisazioni dissonanti e acide traevano ispirazione dalle registrazioni di Taylor con Jimmy Lyons, e perfino Martin Rev dei Suicide passò dal pianoforte alla tastiera elettrica (e dal jazz alla musica rock) perché convinto che dopo la musica di Cecil Taylor non fosse più possibile dire qualcosa di essenzialmente nuovo nell’ambito del pianoforte jazz.

La storia l’ha dimostrato: questo timore era essenzialmente infondato. Però forse dovrà passare ancora un po’ di tempo prima che nel mondo della musica si ripresenti una personalità tanto forte, carismatica e innovativa quanto quella di Cecil Taylor. Ci mancherai.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia