KEVIN MORBY – THIS IS A PHOTOGRAPH

Dead Oceans

2022

Folk

This is a photograph / a window to the past / of your father on the front lawn / with no shirt on / ready to take on the world / beneath the West Texas sun.

Il settimo album del cantautore statunitense Kevin Morby si apre con questa descrizione micidiale in puro stile Southern gothic, a metà tra Flannery O’ Connor e l’ultimo Raymond Carver, quello degli alcolizzati sconfitti e disperati che provano a riempire i vuoti della vita con il racconto delle proprie storie. Kevin Morby ha fatto sette dischi, e io, prima di questo This Is a Photograph, non ne avevo sentito nemmeno uno: a quanto pare, è sempre stato considerato uno di quei mestieranti che si dilettava nel rovistare in un catalogo enorme come quello della folksong americana cercando di capire come incastrare tra di loro quei quattro accordi che potessero raccontare una vera, fantomatica verità una volta per tutte.

This Is a Photograph non è poi così differente da queste linee di pensiero: il tono di Morby potrebbe essere definito senza alcun problema come dylaniano, fin dalla cadenza con cui si esprime; il suo chitarrismo è senza infamia e senza lode. Eppure, fin dalla title track che apre il disco, si respira una polvere che ha al tempo stesso l’odore delle strade sterrate nei giorni di sole e delle soffitte piene di bauli in quelli di pioggia. E lo dico in senso positivo, tipo le case dei vecchi ne La grande bellezza. La chitarra, che comincia il brano con quello che Morby stesso ha dichiarato essere semplicemente un riff dei Silver Jews suonato al contrario, si muove senza sosta su una sola figura mentre il Nostro sciorina il ritratto della sua famiglia, che diviene al tempo stesso uno zoom nel particolare e un’esplorazione macroscopica del trauma, del lutto e della riflessione che attraversano le generazioni e che arrivano a rappresentare tutta un’America degli abbandonati, quella che nel bene e nel male è divenuta il simbolo letterario delle nazioni oltreoceano nell’ultimo secolo. Le fotografie sono finestre sul passato, e infatti Morby ripesca tutti i suoi idoli, in maniera a volte totalmente esplicita (Five Easy Pieces si apre con lo stesso “I was dreaming of the past” che è anche la opening line di Jealous Guy di John Lennon), a volte nascondendoli dietro velate allusioni (come sul finale di Disappearing, che tra gli organi e i cori racconta la tragedia della fine di Jeff Buckley): quelli già qui citati come David Berman o Bob Dylan, ma anche Elliott Smith e Otis Redding. Sono fantasmi che compaiono tutti tra le tremolanti istantanee scattate con la Polaroid sonora che è This Is a Photograph: la pellicola è bruciacchiata e i contorni sfocati, ma il centro dell’immagine è sempre lo stesso, il disperante senso di essere bloccati in un ciclo da cui è impossibile uscire.

C’è anche un falso finale: la sardonicamente intitolata It’s Over, che muovendosi passo dopo passo sempre più lontana dal suo pianoforte soffuso pare quasi una riproduzione in miniatura di A Day in the Life, giusto per voler mostrare la voglia di andare oltre i confini americani e raccontare qualcosa di molto più universale. E poi c’è il finale vero, o forse no: Goodbye to Good Times si chiude in un modo diverso a quello in cui il disco comincia, con l’impianto strumentale è completamente dilaniato rispetto a quella angst che ricordava un Highway 61 Revisited ancora più pronto a fare a botte di quanto non volesse fare la band di Dylan nel ’65. Ma il testo si richiude su stesso, crolla come la casa dei Buendía alla fine di Cent’anni di solitudine che si ricongiunge a una terra che ora è straniera e lascia con gli occhi sgranati per la durezza di quello che è stato appena detto: “This is a photograph / a window to the past / of a family growing old / inside the boxing ring of time / in bittersweet, bittersweet, / Bittersweet, Tennessee.”

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala