CONTAINER BRUTTO

L’ALBUM DI DEBUTTO DI DOMI E JD BECK È UNO SPRECO DI RISORSE

DOMI & JD BECK – NOT TIGHT

Apeshit

2022

Jazz Fusion

L’hype è una bestia strana. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto – all’incirca intorno al 29 luglio, data di uscita di questo NOT TiGHT – era impossibile non incappare in uno dei tanti articoli su questo eccentrico duo, tutti rigorosamente scritti da gente che del jazz degli ultimi dieci anni conosce poco e male solo ciò che è uscito per Brainfeeder, Blue Note o Impulse! e tutti con titoloni roboanti che facevano immediatamente passare la voglia di leggerli. Questi articoli di solito si concentravano su due cose due: sul fatto che DOMi e JD Beck sono entrambi appena ventenni, e sul fatto che per qualche motivo il jazz è di nuovo figo (sic) grazie a loro. Ne parlavano letteralmente tutti: Rockol, Rolling Stone Italia, Il Manifesto, il Guardian, Pitchfork, pure Sky TG 24 (porco dio?!).

Ora è settembre, e pare che DOMi & JD Beck siano svaniti nel nulla, quasi completamente dimenticati dal circuito della critica musicale – solo il New Yorker recentemente ha dedicato loro un pezzo, circa un mese dopo tutti gli altri. Ed è giusto così, perché – a pensar male eccetera eccetera – i motivi principali per cui di DOMi e JD Beck a un certo punto si doveva parlare per forza hanno a che fare molto poco con la loro musica e invece troppo con ciò che vi orbita attorno: sono sotto l’ala di Anderson .Paak, che ha pure fatto produrre il loro debutto dalla sua Apeshit in collaborazione con Blue Note; sul loro album di debutto figurano come ospiti tanto Herbie Hancock e Kurt Rosenwinkel quanto Thundercat, Mac DeMarco, Busta Rhymes, Snoop Dogg e, ça va sans dire, Anderson .Paak; per di più, il loro nome figura tra la lista infinita di nomi nei credits del tremendo An Evening With Silk Sonic (sono i compositori di Skate). A tutto questo, si aggiunge pure il fatto che i due hanno adottato fin da subito un’estetica fortemente atipica, quasi iconoclasta rispetto allo stereotipo del jazzista che ha in mente chi il jazz non lo ascolta: vestiti sgargianti e coloratissimi, presenza scenica più infantile che adolescenziale, un sito personale dall’impianto grafico surreale per non dire grottesco, e per di più sui loro canali social postano perfino robe come versioni di Giant Steps in 18/8 suonate alla sola tastiera in tenuta da scolaretta gotica. Il Guardian dice, non a caso, che DOMi e JD Beck «shitpost their way into jazz pantheon». È una locuzione intraducibile ma perfetta per descrivere l’ascesa di popolarità di questa coppia, e che probabilmente giustifica la formula usata da Pitchfork per descriverla: sono i «100 gecs of jazz».

Ma alla fine chi sono davvero DOMi e JD Beck? Lei, vero nome Domitille Degalle, è una tastierista francese diplomata al conservatorio di Parigi, che ha pure suonato con Jason Palmer su Sweet Love; lui è invece un batterista americano di poco più giovane con la passione per l’hip hop – ha pure suonato per la band del produttore Jah-Born «where he duetted with MPC beatmakers and DJs spinning Dilla». In ogni caso, la loro passione per il jazz e le loro capacità come strumentisti sono reali e ben documentate, il che rende forse ancora più amara la tremenda qualità di questo NOT TiGHT. L’obiettivo dichiarato di DOMi e JD Beck sarebbe infatti quello di rendere un tipo di musica tecnicamente impestata (in questo caso, inquadrato nella fusion anni Settanta) accessibile e appetibile a un pubblico più giovane; il problema è che i due affermano esplicitamente di voler migliorare la qualità della musica commerciale, ed è proprio seguendo i paletti asfissianti di quest’ultima che loro scrivono la propria musica. Non che i brani di NOT TiGHT non possiedano anche vari dettagli ritmici e armonici avvincenti, che per di più sono esaltati in ogni loro sfumatura da una produzione impeccabile: è impossibile non rimanere impressionati per tutto il disco dal drumming pirotecnico e strabordante di JD Beck, che spesso si incarta in breakbeat degni di Squarepusher o Venetian Snares, oppure dal dialogo tra il basso fretless di DOMi e il pianoforte di Hancock che conferisce a MOON l’umore lacustre tipico della Canterbury più gentile. Tuttavia, le parti di tastiera rivestono la musica di una melassa luccicante e nauseante, che addolcisce ulteriormente le timbriche già non esattamente aspre di gruppi come i Return to Forever proiettando le sonorità del duo nei territori mansueti e inoffensivi dello smooth jazz o, peggio, della muzak da ascensore. Quando poi entrano in gioco le parti vocali, tra vocoder e strofe in rap non proprio indimenticabili, NOT TiGHT regredisce ulteriormente a quella dimensione di neo-soul e jazz-funk in chiave pop che è abitata proprio dai numi tutelari del duo – Thundercat, Anderson .Paak, Bruno Mars: quelli insomma che suonano le forme mainstream della musica black in maniera più professionale di tutti gli altri per suonare comunque altrettanto prevedibili e sciacquati. Alla fine è niente più e niente meno la dimensione in cui DOMi e JD Beck volevano collocarsi prima ancora di registrare il disco, quindi non si può imputare loro chissà quali errori di metodo – come potrebbero essercene, d’altronde, con le risorse a loro disposizione?. Però rimane la domanda: una missione del genere era degna di essere intrapresa? Io dico di no.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia