CONTAINER BELLO

JAZZ DA CAMERA, MA SENZA TROPPE POSE

KIRK KNUFFKE – GRAVITY WITHOUT AIRS

Tao Forms

2022

Avant-garde Jazz

Prima di quest’anno, non avevo mai sentito alcunché della produzione da leader di Kirk Knuffke, nonostante il suo nome non mi fosse nuovo. È un cornettista americano che chi segue il jazz più post-moderno del nuovo millennio avrà forse incrociato su qualche disco di Michael Formanek, o dei Boom Tic Boom di Allison Miller, o degli Ideal Bread, oppure anche su Jesup Wagon, l’album del Red Lily Quintet di James Brandon Lewis che l’anno scorso è stato celebrato da più parti come una delle più importanti uscite jazz del 2021. O, ancora, avrà potuto leggerne il nome nei credits di qualche disco della Nublu Orchestra di Butch Morris – la figura che ha portato Knuffke a New York nel 2005 e che di fatto ne è stato mentore spirituale, influenzando in maniera sostanziale il suo modo di suonare lo strumento e il suo stesso pensiero musicale e non. Magari, più semplicemente, ne avrà già ascoltato qualche album pubblicato negli ultimi tempi, visto che Knuffke è già da qualche anno un osservato speciale tra gli addetti ai lavori – ha pure vinto il titolo di Trumpet Rising Star secondo il prestigioso sondaggio annuale di critici redatto dal magazine DownBeat, nel 2015. 

Io, invece, ho scoperto Knuffke come leader solo con questo Gravity Without Airs, uscito lo scorso luglio per la Tao Forms, attratto dall’esotica formazione composta di cornetta, pianoforte e contrabbasso e dalla presenza del celebre pianista Matthew Shipp, che nonostante l’età avanzata è ancora un musicista che seguo con curiosità. La line-up – completata dal contrabbassista Michael Bisio – è piuttosto curiosa: Knuffke ha una discretamente lunga storia di collaborazioni con Bisio (l’ultima è stata pubblicata solo quest’anno, sotto il titolo For You I Don’t Want to Go), mentre non aveva mai suonato con Shipp prima del marzo 2021, ovvero quando Gravity Without Airs è stato registrato. (C’è anche da dire che Shipp ha invece suonato molto spesso con Bisio, che da più di dieci anni è membro del Matthew Shipp Trio, e pure con Whit Dickey, fondatore della Tao Forms nonché produttore di Gravity Without Airs: è probabile che il suggerimento di ingaggiare Shipp sia partito proprio da quest’ultimo). La scelta di istituire una formazione così poco collaudata, che addirittura si priva dell’utile collante che può essere il sostegno ritmico di una batteria, è stata in realtà precisamente ricercata da Knuffke, curioso di vedere in che territori si potesse spingere l’interplay di un trio tanto improvvisato. Anche per questo, soltanto sei delle quattordici tracce di Gravity Without Airs sono state composte prima di entrare in studio, mentre tutte le altre sono scaturite quasi naturalmente dall’affiatamento che i tre musicisti hanno subito sviluppato durante le sessioni di registrazione.

SEPARATORE

Una descrizione del genere potrebbe facilmente indurre a pensare che si tratti di un lavoro votato all’improvvisazione più radicale, esageratamente sperimentale e privo di direzione; eppure, programmatico fin dal titolo, Gravity Without Airs viaggia su binari sì intellettuali e gravi, ma senza mai inerpicarsi per forza nell’incomunicabilità più snobistica (put on airs è l’equivalente inglese del nostro darsi arie). Nella sua discografia come sideman – o perlomeno quella che conosco – Knuffke ha d’altronde sempre esibito uno stile molto poco incline a quegli ermetismi solipsistici e corrucciati in cui molti fiatisti appartenenti allo spettro avant-garde del jazz amano grufolare: pure sperimentando con il timbro del suo strumento, trasfigurando all’occorrenza il suono della sua cornetta ora in un soffio strozzato, ora in uno stridulo crepitio in overblowing, Knuffke sfoggia sempre un’elegante piacevolezza e una comunicatività che a priori sembrerebbero quasi cozzare con l’astrazione della sua musica. In effetti i suoi dichiarati modelli di riferimento sono, oltre al Butch Morris musicista, soprattutto Don Cherry e Ron Miles, il che spiega opportunamente questa sua capacità di camminare sul filo teso tra improvvisazione inside e outside tendendo sempre verso l’obiettivo di elargire bellezza a chi lo ascolta – anche se, ammonisce, «not in a precious way. It can be in a rough way, too». Non a caso, due dei nomi che Knuffke più spesso menziona come influenza sono quelli di Ornette Coleman (di cui è stato studente, e da cui ha preso l’abitudine di comporre straight from the horn, anziché partendo dal materiale tematico preparato al pianoforte) e di Steve Lacy (di cui ha studiato approfonditamente gli esercizi e le parti per sax): due personaggi appartenenti indubitabilmente all’area left-field del jazz, ma che ciononostante hanno sempre mantenuto uno stile affascinante e gradevole, indecifrabile più per la prismatica multidimensionalità che non per una qualche ineffabilità arcigna e ostile all’ascoltatore. Knuffke stesso, sul portale Point of Departure, ha dedicato molte parole al tema della compenetrazione tra tecniche estese e tradizionali, viste entrambe come utili strumenti al fine di comunicare qualcosa al pubblico, toccando marginalmente anche la paradossale situazione dell’improvvisazione cosiddetta non idiomatica che la maggior parte delle volte sottintende inevitabilmente sempre lo stesso approccio – e, quindi, lo stesso idioma: è una boccata d’aria rigenerante per me che vado ripetendo queste cose da anni, oltre a essere un’intervista di per sé molto interessante e acuta in vari altri passaggi, perciò ve la consiglio.

La prospettiva concettuale che Knuffke adotta in veste di strumentista si riflette inevitabilmente anche sulla poetica del suo trio, che sviluppa il proprio discorso seguendo percorsi erratici e mutevoli, evolvendosi per accumuli e scarichi di tensione senza soluzione di continuità. Il baricentro musicale di Gravity Without Airs appare instabile, e i brani attraversano placidamente sezioni cameristiche dall’atmosfera umbratile e riflessiva per poi incresparsi improvvisamente, deflagrando infine in sezioni solistiche il cui dinamismo timbrico e ritmico è molto più in linea con i dettami della scena newyorchese contemporanea: le linee di contrabbasso diventano più contorte ed elastiche, il pianismo di Shipp indulge maggiormente nei suoi caratteristici ostinato di cluster rumorosi e percussivi che gli hanno valso più di qualche paragone con Cecil Taylor, pure le parti di Knuffke si fanno più dissonanti e il registro dello strumento viene distorto dall’applicazione di varie tecniche estese. Nelle tracce basate su materiale pre-composto, come la title track in apertura e Bridges, si riconosce anche un passo ritmico più claudicante, con contrappunti più elaborati e call & response sofisticati tra i vari strumenti che sarebbe francamente assurdo aspettarsi in un setting completamente improvvisato da un gruppo che non aveva mai suonato insieme in precedenza.

Tuttavia, Gravity Without Airs non suona mai particolarmente asfittico o inintelligibile, neanche quando l’utilizzo dell’archetto sul contrabbasso o il pizzicato sulle corde del pianoforte (cfr. l’apertura di Heal the Roses) conducono inevitabilmente il pensiero verso certe contaminazioni con la musica d’avanguardia. Anzi: tanto nei brani completamente improvvisati quanto, soprattutto, in quelli basati su materiale scritto prima di entrare in studio, il trio di Knuffke manifesta sempre una forma di lirismo volatile e sfuggente, che evade così il rischio di incappare nello sterile grigiore dell’accademia. Anche nei suoi momenti più sfilacciati la musica di Gravity Without Airs mantiene una spiccata leggerezza che rimanda, più che alle insipide produzioni omologhe di casa ECM, a certe incisioni di fine anni Novanta di Matthew Shipp – penso in particolare a robe come Strata e Gravitational Systems, non a caso anche quelli registrati senza avvalersi di un batterista. È una leggerezza che, senza essere frivola, smussa gli aspetti più cervellotici della musica del trio, che suona così molto più entusiasmante e digeribile ma non per questo meno intensa; una leggerezza che addirittura rende credibile una conclusione come Today for Today, praticamente una ballata degna di Chet Baker che chiude un’ora e mezza di saliscendi disorientanti tra jazz da camera suonato in punta di piedi e densi exploit solistici collettivi. Una leggerezza che, semplicemente, fa di Gravity Without Airs uno dei lavori jazz più creativi di questo 2022.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia