CONTAINER BRUTTO

IL PASSO FALSO DI DIRTY COMPUTER

JANELLE MONÁE – DIRTY COMPUTER

Atlantic

2018

Contemporary R&B

Insieme a St. Vincent e Julia HolterJanelle Monáe si è indubbiamente affermata come una delle eroine del pop anni 2010, in particolare quel tipo di pop che piace moltissimo anche a noi perché riesce a coniugare arrangiamenti divertenti e linee melodiche orecchiabili con una vera creatività artistica, intrattenendo e interessando l’ascoltatore senza scadere mai nel guilty pleasure. Come ho notato varie volte con un poco di tristezza, per molte persone il pop contiene quasi sempre una certa percentuale trash sui cui poter ironizzare in maniera più o meno velata (e forse inconscia); metodo utile, questo, per deflettere qualsiasi critica sulla validità musicale delle cose ascoltate. Tutti noi abbiamo musica che sentiamo per spegnere il cervello, ma ignorarne le mancanze – oppure addirittura esaltarle – serve solo a propagare l’idea che questo genere debba solo “funzionare”, che sia più un’operazione commerciale da puntare al giusto target audience che una forma d’arte vera e propria. Delle sopracitate eroine, la prima ha rilasciato nel 2017 un album piuttosto dimenticabile (che peraltro contiene ingenuità vagamente assimilabili a quelle di cui parleremo a breve); la seconda ha fatto uscire un disco live in studio decente, ma comunque niente di imperdibile; Janelle Monáe è stata di gran lunga la più deludente. Dirty Computer, pubblicato con gran clamore questo aprile, è un album sciocco e a tratti pure offensivo, sbagliato sia sul piano musicale che su quello concettuale ed estetico.

SEPARATORE

Musicalmente parlando si passa dagli arrangiamenti tra jazz, r&b e funk del suo capolavoro The Archandroid a un approccio più contemporaneo in cui il funk viene plastificato e la componente elettronica si fa molto marcata; ci sono poi, come sempre, sprazzi di diversi altri generi che fanno più volte capolino. Anche se la stratificazione delle varie componenti rimane ben fatta, il sound generale appare decisamente meno ispirato, e alcune commistioni finiscono per essere a un passo dal ridicolo: i momenti pseudo-trap su Crazy, Classic Life e Django Jane sono imbarazzanti e puzzano di artista invecchiato che si reinventa in modo patetico per restare rilevante; Pynk prende in prestito l’incedere del pop elettronico portato alla ribalta da Jamie xx incastrandolo però sotto a un cantato da classifica sentito mille volte, col featuring di Grimes a rivestire chissà quale funzione considerato che il pezzo suona uguale al resto del disco. Altra influenza antipatica per quanto sembra orchestrata a tavolino è la cadenza à la Kendrick Lamar che spunta in alcune delle strofe più rap affrontate dalla Monáe (quella di Django Jane su tutte), e che pare l’ennesimo mezzuccio atto a trasporre questo lavoro al tempo presente; solo otto anni fa invece le variazioni di flow nel cantato erano usate a regola d’arte per dare un ritmo definito al pezzo e fornirgli personalità, con arrangiamenti e inserti vocali a fungere da contrappunto: esempio lampante l’incredibile Dance or Die. Sono ingenuità come queste a separare The Archandroid, che riusciva a fondere groove trascinanti con arrangiamenti grandiosi e divertentissimi, dalla banale frivolezza di Dirty Computer, tristemente pieno di linee melodiche che potrebbero benissimo essere uscite da un disco a caso di Rihanna o Kesha. La struttura dei pezzi è altrettanto povera in quanto abusa di tutti i trucchetti formali onnipresenti nel pop di serie B senza mai sforzarsi di farli evolvere: incedere lento – stacco – break rap con gli arrangiamenti che accennano un groove mangiucchiato è una tattica che si trova tanto spesso in Dirty Computer da far diventare la metà dei brani una massa indistinta di cliché. Parliamo poi di I Got the JuiceI Got the Juice suona come Hollaback Girl di Gwen Stefani. Vi lascio le canzoni qua così potete sentire voi stessi. Chi è il featuring in I Got the Juice? Pharrell Williams. Chi ha aiutato a scrivere Hollaback Girl? Pharrell Williams. Arrivati alle ultime tracce per fortuna i toni cambiano un po’ ed escono fuori Stevie’s Dream e So Afraid, gli unici due pezzi passabili, eccezioni in quello che sembra essere il pressante desiderio di tutto il disco: integrarsi, amalgamarsi alla corrente di pop falsamente nobilitato così in voga di questi tempi. Ma sono appunto eccezioni, e in chiusura Americans finisce per commettere gli stessi sbagli sfoderando un preaching sintetico involontariamente stridente e davvero di cattivo gusto.

Lasciando stare la musica, la banalità di fondo del disco è poi corroborata sia dal tipo di estetica portata avanti (quella sorta di femminismo commerciale che ti fa apparire su Cosmopolitan) sia dai testi, che trattano con molta superficialità più o meno tutte le battaglie per la giustizia sociale degli ultimi anni. È un album espressamente LGBTQ-friendly, ma ciò non si traduce in nessuna attitudine nuova o rivoluzionaria, bensì sembra essere solo una scusa per riproporre sotto una luce più moderna lo stesso pattume risciacquato fatto di positività e sentimenti vuoti. Prendiamo due tra gli esempi più eclatanti (ma ce ne sono molteplici, non c’è un testo passabile in tutto il disco):

Young, black, wild and free
Naked in a limousine (Oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh)
Riding through the hood real slow
I love it when I smell the trees (Oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh)
I just wanna party hard
Sex in the swimming pool (Oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh)
I don’t need a lot of cash
I just wanna break the rules (Oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh)

Screwed

So, here we are in the car
Leavin’ traces of us down the boulevard
I wanna fall through the stars
Getting lost in the dark is my favorite part
Let’s count the ways we could make this last forever
Sunny, money, keep it funky
Touch your top and let it down

Yeah, somethin’ like that
Owwww! Somethin’ like that
Yeah, somethin’ like that
‘Cause boy, it’s cool if you got blue
We got the pynk

Pynk, like the lips around your… maybe
Pynk, like the skin that’s under… baby
Pynk, where it’s deepest inside… crazy
Pynk beyond forest and thighs
Pynk, like the secrets you hide… maybe
Pynk, like the lid of your eye… baby
Pynk is where all of it starts… crazy
Pynk, like the holes of your heart

Pynk

Io prima di infamare arte proveniente dal mio lato della barricata ci penso dieci volte, specie in un periodo storico dove giocare a fare i centristi è diventata una strategia pericolosamente efficace da parte della destra più becera, ma c’è un limite a quanto si può essere frivoli se la musica che componi vuole avere una valenza sociopolitica; e se questi due esempi alla fin fine non parlano di niente, quando i rimandi politici sono più espliciti le cose non vanno meglio:

Hundred men telling me cover up my areolas
While they blocking equal pay, sippin’ on they Coca Colas (oh)
Fake news, fake boobs, fake food—what’s real?
Still in The Matrix eatin’ on the blue pills (oh)
The devil met with Russia and they just made a deal
We was marching through the street, they were blocking every bill (oh)
I’m tired of hoteps tryna tell me how to feel

Screwed

(Testo che, facendo una piccola parentesi, mi dà ancora più fastidio: comparare la destra americana a chi decide di rimanere nella Matrice prendendo la pillola blu è particolarmente inefficace considerato che la destra chiama “red-pilled” chi è diventato conservatore in opposizione alle politiche sociali della sinistra. Usare – per sbaglio, sono sicuro – la stessa comparazione quando l’esatto contrario è ormai di gran lunga più radicato nel vocabolario urbano è una scelta piuttosto infelice.)

In ultima analisi le riflessioni da fare sul contenuto di Dirty Computer sono legittimate principalmente dal fatto che il lato musicale è così debole: non voglio dire che la musica “di sinistra” (almeno socialmente parlando) debba essere sempre impegnata, arrabbiata o edgy, e neanche voglio forzare una classe di persone già sproporzionatamente vittima di abusi e violenze a non avere mai un momento di leggerezza, ma smussare ogni angolo della propria espressione artistica e vestirlo di un paio di pantaloni a forma di fica non mi pare la soluzione più ideale. E mi permetto di dire ciò solo perché rispetto sia Janelle Monáe che i suoi intenti nella produzione di questo pessimo album.

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David Cappuccini
David Cappuccini