CONTAINER BELLO

IL JAZZ LYNCHIANO DEGLI STAREBABY È UNA BOMBA

DAN WEISS STAREBABY – NATURAL SELECTION

Pi

2020

Avant-jazz

Nel nostro lungo recap dell’attività della Pi Recordings degli anni Dieci abbiamo già avuto modo di parlare, e con dovizia di particolari, di Dan Weiss e del suo progetto Starebaby (nome che, nato come semplice titolo di un suo album del 2018, è divenuto negli ultimi due anni il moniker ufficiale dell’ensemble che aveva suonato su quel disco). Per chi se lo fosse perso, basti sapere che si è trattato di un ambizioso programma di fusione tra jazz e metal, condito da spruzzate di manipolazioni elettroniche e dall’influenza pervasiva delle atmosfere surreali di Twin Peaks, i cui esiti erano risultati particolarmente originali anche perché, per una volta, questo processo di comunicazione tra mondi così differenti è partito da musicisti jazz appassionati di metal, e non il contrario.

Dopo la pubblicazione del primo Starebaby, il quintetto ne aveva portato la musica in giro per il mondo (nell’aprile 2019 aveva toccato anche l’Italia), in un tour al termine del quale il gruppo – nella stessa esatta formazione che aveva registrato l’esordio – era già pronto a tornare in studio per dare un seguito a quel lavoro. In effetti, a inizio anno il sito ufficiale della Pi Recordings annunciava un sequel per Starebaby la cui pubblicazione era prevista già per maggio, ma con le difficoltà dovute alla pandemia di COVID-19 il nuovo album (intitolato Natural Selection) ha visto la luce soltanto lo scorso 18 settembre.

Non ci gireremo troppo intorno: Natural Selection è non solo un disco che supera sotto praticamente ogni punto di vista il precedente Starebaby, ma è anche uno dei lavori più creativi, originali, e mozzafiato che questo 2020 ci abbia consegnato finora.

Non si tratta tanto di una differenza di stile o atmosfere, visto che Natural Selection gioca nello stesso campionato di Starebaby seguendone più o meno le stesse regole. A cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe parlare di una leggera riduzione delle ingerenze elettroniche operate da Matt Mitchell Craig Taborn, parzialmente sostituite da un più pervasivo lavoro di effettistica da parte del chitarrista Ben Monder – ma, anche qui, si starebbe facendo una semplificazione piuttosto rozza, contando quanto la componente elettronica sia ancora determinante nell’economia di tutto il disco. Perché alla fine gli ingredienti sono grossomodo gli stessi di sempre: quella degli Starebaby è ancora una commistione delle tecniche, delle forme e dell’improvvisazione della musica jazz con l’estremismo sonoro, l’umore plumbeo e i tempi rallentati del doom metal – di più o meno ogni provenienza geografica e temporale -, il tutto riletto sotto la lente concettuale fornita da Twin Peaks. La fusione di questi generi, nuovamente, va quindi a collocarsi in quella zona franca del mondo progressive/jazz rock più oscuro e ostile che si è imposto nell’underground a partire dagli anni Ottanta, talvolta propendendo con più decisione verso il versante jazz, talaltra con maggiore convinzione verso quello metal.

Il legame tra Starebaby Natural Selection, ovvio fin dal primo ascolto, è in realtà fortemente ricercato da Weiss stesso. Rifacendosi al concetto buddhistico del tulpa, un’entità spirituale prodotta tramite la meditazione, Weiss immagina una buona parte della scaletta di Natural Selection come un “tulpa” di quella di Starebaby, esplorandone da una diversa prospettiva le stesse idee compositive, esecutive, strutturali e umorali. Gli stessi titoli (Episode 8 su Starebaby ed Episode 18 su Natural Selection, oppure The Memory of My Memory A Taste of Memory, etc.) tradiscono dove cercare le corrispondenze tra le due tracklist.

Dan Weiss

E allora, cos’è cambiato così drasticamente tra Starebaby Natural Selection per avere un lavoro che, pur nel suo minutaggio ancora più dilatato (arriviamo qui alle soglie degli ottanta minuti supportati dal cd, quasi venti in più del debutto), risulta tanto più stimolante, vario e convincente rispetto al predecessore? Una possibile risposta è quasi banale, ed è semplicemente da ricercarsi nella qualità della scrittura dei nuovi pezzi, concepiti tutti alla conclusione del tour degli Starebaby e che evidentemente hanno beneficiato di un periodo in cui il quintetto ha potuto entrare al meglio nella dimensione musicale di Starebaby, smussandone ancora i non pochi spigoli, amalgamando con più omogeneità il crossover stilistico, ed esplorando in maggiore profondità tutte le potenzialità del suono del gruppo. L’assalto di Episode 18 è emblematico in questo senso: il primo, serratissimo minuto sembra provenire direttamente da un qualche pezzo più strutturato dei Naked City di Torture Garden, ma l’improvvisazione che scaturisce dopo l’enunciazione del tema principale del pezzo (che si colloca da qualche parte tra i King Crimson di Larks’ Tongues in Aspic e quelli di Thrak) si dipana con naturalezza tra accelerazioni death metal, downtempo rovinosi, e glaciali distese elettroniche, in un’improbabile collisione tra Fantômas e i Dark.

Ogni pezzo sembra osservare il prisma sonoro degli Starebaby da un’angolazione diversa, interpretando nei modi più svariati cosa può significare “coniugare musica jazz e metal”. Su Bridge of Trust (e su Head Wreck, che si muove su binari concettuali molto simili), per esempio, la fusione dei due generi avviene “verticalmente”: sembra quasi che nel gruppo certi componenti suonino i propri strumenti rifacendosi al metal e contemporaneamente gli altri si ispirino al jazz, creando una sintesi musicale in cui nessuno dei due generi esiste più realmente. The Long Diagonal, che è d’altra parte uno dei brani in cui la radice jazz è più ovviamente riscontrabile, sembra invece un pezzo di jazz rock (il tema di tastiere che introduce il brano sembra provenire direttamente da Canterbury) eseguito emulando la struttura dell’heavy metal. Forse non è troppo sbagliato leggere il modo in cui i pianoforti acustici di Taborn e Mitchell (i cui assoli potrebbero essere benissimo estratti da qualche disco di Andrew Hill o Mal Waldron) e la chitarra elettrica di Monder dialogano l’uno con l’altro come una personale reinterpretazione degli assoli in dual lead di certi gruppi metal.

Starebaby

L’altro motivo che decreta il successo di Natural Selection – non ovvio quanto la maggiore alchimia del quintetto spiegata sopra, ma altrettanto determinante per la sua fortuna – è il netto miglioramento della qualità della registrazione e dei suoni. Nel primo album il missaggio lasciava un po’ a desiderare, specie nei momenti più duri: forse ciò esaltava la componente claustrofobica della musica degli Starebaby, ma impattava drasticamente sulle dinamiche (che venivano spesso appiattite su un registro medio un po’ monocorde e incolore) e, di fatto, indeboliva la loro performance. Questa volta, invece, tutto fila alla perfezione: le parti più delicate emergono con chiarezza, di quelle più estreme viene esaltata a dovere l’irruenza sonora senza far perdere nitidezza o volume, e le due diverse anime del progetto convivono in armonia senza tarparsi le ali a vicenda – inevitabilmente, aggiungendo una tridimensionalità (musicale, certo, ma soprattutto psicologica) che Starebaby non poteva vantare.

I momenti più esaltanti di Natural Selection, non a caso, sono proprio quelli in cui emerge maggiormente questo contrasto tra dinamiche piane e forti, e tra i timbri più o meno distorti degli strumenti. Per dire, la tenue ballata Dawn è forse il momento più semplice di tutto l’album, visto che a parte uno sfogo a metà brano si gioca per quasi sei minuti su un melanconico tema di (doppio) pianoforte doppiato dagli effetti psichedelici di Monder, che qua offre la sua personale interpretazione della Frippertronics (Weiss, riferendosi a questo pezzo, ha parlato addirittura di Blue Nile e Cocteau Twins). Eppure, è facile perdersi nella vasta palette di colori di cui dispone il quintetto, cercando di stare dietro a tutte le variazioni nella parte di batteria di Weiss, alle texture della chitarra, e soprattutto al meraviglioso lavoro del basso di Trevor Dunn, che qua contrappunta con eleganza il riff di piano di Mitchell e Taborn.

A Taste of a Memory fa ancora di più e ancora meglio: quella che sembra aprirsi come un’inquietante, ma comunque misurata, reinterpretazione della musica di Badalamenti per Twin Peaks, con il tema di pianoforte e il sintetizzatore a suggerire scenari onirici e surreali, decade con il passare dei minuti in una sorta di doom metal jazzato, dominato da chitarra distorta, basso e batteria (e in cui le tastiere si limitano a fornire un’ulteriore fonte di rumore con stridii elettronici e cascate atonali di note di pianoforte). Quando quest’ultima sezione implode su se stessa, il pianoforte in solitaria ribadisce il tema traghettando il brano verso un’ulteriore jam jazz rock collettiva, che si spegne infine in un lungo fade out, cannibalizzato dal delicato tema di tastiera che lo sovrasta progressivamente prima di chiudere definitivamente il brano. Con un’altra scelta di produzione, sarebbe stato difficile apprezzare appieno le diverse anime che compongono questa composizione.

Natural Selection è un lavoro impressionante da molti punti di vista. Quello che su Starebaby sembrava essere un semplice esperimento estemporaneo, molto coraggioso e ambizioso ma in definitiva destinato a rimanere una digressione nella carriera di Dan Weiss e degli altri membri degli Starebaby, è sbocciato invece in un suono completamente unico, perfettamente calibrato e che pure suggerisce ancora ampi margini di manovra ed esplorazione. Uno dei lavori imperdibili dell’anno, a prescindere dall’ambito – jazz, prog, metal – che vogliate considerare.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia