BOB DRIFTWOOD – CROW’S PINE

Lobby Art

2022

Freak Folk

Chi ci segue da tempo sa che la musica acustica a trazione chitarristica a noi piace per lo più quando chi la esegue sembra uscito da una cabin in the woods, tutto sporco di trucioli e sangue e portatore sano di un paio di occhi da pazzo à la Leshy di Inscryption. Non si tratta neanche più di ricercare il disco primitivista che dissipa la sete forestale che abbiamo ogni anno (i Big Thief nel 2022 hanno risolto il problema), ma di andare a capire qual è stato l’impatto dei vari Richard Dawson e David Garland sulla musica contemporanea, perché ne vogliamo di più. Datecene di più. Vi prego, ho moglie e figli. Capita quindi di andare sulle periferie della musica sperimentale e drizzare le orecchie non appena si ha l’impressione di essere davanti a un miscuglio efficace, un impacco di folk cigolante che possa aiutarci a tenere botta. E qui, oggi, becchiamo Crow’s Pine, il debutto per Lobby Art di Bob Driftwood, un falegname del Vermont. Il disco è tutto sommato molto semplice: depresso, misero, con delle divergenze melodiche che davanti a mostri del genere come Niandra oppure Peasant alla fine fanno un po’ la figura di una versione per famiglie del folk da outsider, quello sporco, dissonante e sinistro.

La prima cosa interessante: durante le sue prove migliori (Another Blue, Rat Race, Bunker’s Blues) Driftwood intesse con una certa competenza una trama sonica che nelle sue componenti acide e stonate ha una marezzatura davvero graziosa, una complessità che – quando emerge – si avvicina più alle produzioni eclettiche e diversificate di questi anni ’20 che a quei panorami fuzzy che si trovano nei missaggi della maggior parte dei dischi psych-folk. Dall’altro lato dello spettro, in composizione, fa specie un interplay quasi inesistente, che puzza di chiuso in una maniera allucinante. Capita più volte di trovare linee di banjo e scampoli di chitarra che vengono coperti da campanelle, fiocchi di sassofono e secchiate di droni di viola in una soluzione armonica che come soundscape regala al massimo uno sconfortante sgabuzzino, di quelli che andrebbero messi a posto ASAP ma che quando li apri diciamo che poi li chiudi. Sembra una cosa antipatica, ma l’horror vacui espresso da queste sovrapposizioni contribuisce vigorosamente all’atmosfera generale del disco, che qui e lì si posiziona come lavoro “no-folk“, complici anche i sax scostanti e il canto nasale e lamentoso di Driftwood. Dall’altro lato la nota dolente, la rottura di coglioni, la brutta cosa: capita che tra gli esperimenti di Crow’s Pine si nascondano delle tracce più imbellettate, placidamente Americana (Ivory Tower, Crow’s Pine). Un po’ scema la scelta di interrompere il sugo dell’album con dei rotondi breather che abbandonano il subconscio di Driftwood per delle flaccide session di noia lacustre che funzionerebbero solo se cantasse Bill Callahan, più che Smog.

Anche volendo glissare sulle prove meno riuscite è innegabile che la pluridirezionalità di Crow’s Pine sia un pregio/difetto, di cui non è possibile definire stabilmente il segno. Stiamo maneggiando un lavoro alieno da quei lavori folk più meditabondi e psichedelici che provano a gocciolare su nastro la freschezza del Walden Pond, l’espressività è a un livello decisamente superiore. Però siamo anche in un campo più terrestre, ben distante dai maestri del freak folk di spirito più outsider e iconoclasta – gli stessi per i quali su queste pagine cadiamo puntualmente in una sindrome di Stoccolma dai tempi in cui Jandek si mise a registrare la sua chitarra scordata per la prima volta. Ma non l’abbiamo ancora raccontata tutta, dai. Nei nove minuti finali di Spring Lullaby, Driftwood e i suoi collaboratori immergono una nenia dolcissima in un bagno di droni, cori celesti e leggere stonature, riuscendo in questo modo ad illuminare il cuore tenero ed erbaceo del cantare e del sentire dell’autore in un pallore che odora di avant-garde. Un lento sciabordio folk in un ricordo di avant-folk. A questo punto la fumata diventa definitivamente bianca, Bob Driftwood entra furtivo tra gli osservati speciali e a Crow’s Pine decidiamo di dare il beneficio del dubbio.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M