KHANATE – TO BE CRUEL

Sacred Bones

2023

Drone Metal

Agli albori del nuovo millennio, i Khanate sono emersi dall’underground metallico americano quasi per caso, come un’infezione fulminea e purulenta. Ai tempi Stephen O’Malley, nonostante il suo lavoro con i Thor’s Hammer e i Burning Witch, non aveva ancora ottenuto la popolarità che avrebbe acquisito con i Sunn O))) solo qualche anno più tardi; James Plotkin, che con il suo lavoro per gente come Oneohtrix Point Never, Menace Ruine e Tim Hecker sarebbe diventato uno dei produttori più richiesti degli ultimi trent’anni, all’epoca aveva all’attivo soltanto l’esperienza con gli OLD – tuttora non esattamente celebri – e una serie di registrazioni infrattatissime ascrivibili al fenomeno illbient (e di queste solo Evanescence degli Scorn, allo stato attuale delle cose, non è appannaggio esclusivo dei più fanatici completisti della scena); ancora peggio, il cantante Alan Dubin poteva vantare solo l’avventura con gli OLD nel proprio curriculum. Per tacere poi di Tim Wyskida, che è diventato parte dei Blind Idiot God più o meno nello stesso periodo e che rimane ancora adesso un nome praticamente sconosciuto ai più. Nei miseri sei anni di attività della loro prima incarnazione, i Khanate hanno fatto in tempo a marchiare a fuoco il mondo del metal estremo newyorkese, coniando un suono straziato e straziante che ha progressivamente scarnificato la materia doom metal restituendone soltanto una carcassa dilaniata. Dal debutto Khanate fino all’EP Capture and Release, la loro musica si è arroccata progressivamente su una forma di minimalismo metal raccapricciante e desolante, sempre più sparso e arido, pervenendo a uno dei suoni più innovativi e unici di tutta la storia del drone metal. Poi, nel 2006, i Khanate hanno terminato improvvisamente ogni attività, con un comunicato da parte di Plotkin che recava accuse piuttosto esplicite riguardanti l’impegno professionale degli altri membri e le loro priorità nella vita (che, per O’Malley e Dubin, erano rispettivamente i Sunn O))) e la propria occupazione come video editor), sparendo nel nulla che li aveva generati sei anni prima; la loro ultima testimonianza è stata, per molto tempo, un album postumo registrato nel 2005 e pubblicato nel 2009, Clean Hands Go Foul. L’ultimo brano di quel disco, Every God Damn Thing, è un’odissea di dolore parzialmente improvvisata in cui per oltre mezz’ora, del metal come lo intendiamo comunemente, sembra sopravvivere solo una pallida eco, percepibile nitidamente soltanto nello scream raggelante di Dubin e nelle vibrazioni del basso distorto di Plotkin, ancora memore della tradizione sludge metal in stile Noothgrush. Tutto intorno a loro, una distesa di morte e appassimento inesorabile, resa ancor più brulla dalle parti di chitarra agonizzanti di O’Malley, dal ridottissimo apporto ritmico della batteria di Wyskida, e dalle folate glaciali di elettronica e glitch. Sul finale, per un tratto, emerge un rigurgito infernale che sconquassa la quiete disperata del pezzo, con la chitarra che si fa più distorta e la batteria più rovinosa, ma è solo un fuoco di paglia: dopo due minuti che sembrano volersi ribellare allo sgretolamento del tessuto sonoro perpetrato nella mezz’ora precedente, Every God Damn Thing si spegne esangue nelle stesse trame rarefatte di sempre. Praticamente, un epitaffio alla missione artistica dei Khanate realizzato da loro stessi. 

SEPARATORE

In realtà, quella stessa Every God Damn Thing che per quasi quindici anni è stata interpretata come degna chiusura delle loro vicende musicali conteneva i germi di un discorso non ancora espresso in forma compiuta. Come probabilmente sa già chiunque segua i Khanate (ma anche molti di quelli che seguono i Sunn O))) e i Blind Idiot God, che hanno fatto rimbalzare la notizia sui propri canali social), il 19 maggio scorso la Sacred Bones ha fatto uscire a sorpresa un quarto full-length, intitolato To Be Cruel e realizzato tra il 2017 e il 2019, all’insaputa del mondo intero, dallo stesso quartetto che ha operato nei bassifondi di New York tra il 2000 e il 2006. Stando alle parole di Plotkin, raccolte in un’intervista per SPIN all’indomani dell’uscita del disco, l’ispirazione per To Be Cruel nasce proprio dalla sensazione di “non detto” rimasta nell’aria dopo la fine della prima stagione della band, i cui ultimi esperimenti avevano indicato anzi diverse direzioni ancora degne di essere esplorate. L’esempio che Plotkin propone per sostenere la sua posizione è, guarda caso, proprio Every God Damn Thing, rivelando anche un curioso retroscena che fornisce una nuova luce, sicuramente più prosaica e forse pure un po’ deludente, tramite la quale inquadrare quel riottoso lampo di sludge metal che ne squarcia il finale. 

[Every God Damn Thing] in particular was easily the most sparse and minimal [track] that we had done. Then at the end of the track, it starts to pick up into something that we probably would have explored a lot more had the tape not run out. We basically stopped because that reel of tape ran out right at the precipice of something new about to happen, something a bit more explosive. That was it for the band. It’s kind of the perfect segue into the new record, […] that’s something I’ve thought about but didn’t think anybody else would catch on.

Tuttavia, sorprendentemente – o per nulla sorprendentemente, a seconda di quanto cinismo ci mettete nel leggere le parole di rito degli artisti al lancio di un nuovo album – To Be Cruel suona piuttosto distante da una progressione del suono Khanate verso territori inesplorati; piuttosto, appare come un disco di ricapitolazione, in cui ogni traccia riecheggia gli stilemi, le sonorità, e soprattutto le strategie psicologiche del loro classico repertorio. Negli oltre diciannove minuti di Like a Poisoned Dog, per dire, si percepisce per la prima volta dopo quasi vent’anni quella manifestazione estremamente torturata e distorta dello sludge metal che si poteva apprezzare sull’esordio e che si era dispersa in maniera sempre più subliminale nei lavori successivi, con un impianto sonoro molto più esplicitamente metallico e meno sparso di quello che i Khanate hanno cominciato ad adottare da Things Viral in avanti: addirittura, verso metà del pezzo, si potrebbe scomodare la parola “riff” per descrivere le figure di chitarra vagamente melvinsiane che cominciano a deflagrare sotto lo straziante «I. FEEL. DEAD.» scandito dallo scream di Dubin – o almeno, si potrebbe pensare di farlo, se solo fossero suonate a tempi meno disumani. Nelle più sinistre It Wants to Fly e To Be Cruel, invece, la formula ritorna più esplicitamente a quella dei secondi Khanate, con tempi rallentati in maniera esasperante, pulviscoli di elettronica glaciale, scudisciate di chitarra e basso che indulgono nelle frequenze più gravi che il loro registro ultra-distorto possa concedere, e scream mostruosi che veicolano testi con una parossistica carica rivoltante (ma anche con un, pur molto distorto, afflato poetico espressionista). Come nella migliore tradizione Khanate, si tratta di viaggi senza speranza verso l’abisso, che si nutrono di un angosciante accumulo di tensione per risolversi infine in maniera estremamente anticlimatica, a sottolineare la stasi della condizione umana narrata dalle parole di Dubin: la title track si chiude in uno stridente feedback di chitarra, mentre It Wants to Fly ancora più rovinosamente si spegne senza alcun preavviso nel silenzio dopo diversi, interminabili minuti di desolazione – il che è comunque una maniera molto efficace di esaltare la componente profondamente disturbante di una musica tanto ossessiva e asfissiante.

In ogni caso, la musica dei Khanate non è mai stata completamente uneventful, e per fortuna To Be Cruel segue la strada tracciata dai suoi predecessori anche sotto questo punto di vista. Il tessuto sonoro dei brani appare sempre instabile, e perfino nei momenti in cui questi sembrano ristagnare in una ripetizione senza via di uscita si scorgono sempre diversi dettagli che, in primo piano e sullo sfondo, mutano impercettibilmente ma inesorabilmente, alleviando il senso di staticità. Il maggior contributo, in questo senso, è offerto dal solito Dubin, che nonostante una potenza leggermente increspata dall’età anagrafica sfodera la solita prova viscerale e intensissima fatta di urla, lamenti, sussurri e sibili digrignati tra i denti; ma non si deve sottovalutare anche l’apporto del soundscape elettronico, dell’eccellente produzione di Colin Marston, e soprattutto del dinamico e intelligente stile percussivo di Wyskida, capace di destreggiarsi tra un’interpretazione estremamente belluina e fragorosa del proprio ruolo di batterista (con tanto di oggetti di vetro e di metallo ad ampliare la gamma di timbri del suo strumento) e una molto più subliminale, costruita su rulli impercettibili sui tamburi e dinamiche più piane. Non basta di certo a rendere To Be Cruel un disco imperdibile o anche solo uno dei migliori parti dell’anno in ambito metal estremo; è comunque più che abbastanza per renderlo una gradita e riuscita sorpresa. 

Condividi questo articolo:
Emanuele Pavia
Emanuele Pavia