CONTAINER BRUTTO

GLI ARCADE FIRE HANNO FATTO UN NUOVO DISCO. E AL POPOLO?

ARCADE FIRE – WE

Columbia

2022

Indie rock

Sono passati diciott’anni dall’uscita di Funeral, e da allora gli Arcade Fire hanno fatto uscire un numero sufficiente di dischi per permetterci un’analisi un po’ più lucida e serena del loro posto nel mondo. È quindi il caso di sederci un attimo, guardarci negli occhi e ammettere placidamente: Funeral è stato una botta di culo. Con buona pace di chi si ostina a considerare i pur piacevoli Neon Bible e The Suburbs come momenti altissimi del rock del nuovo millennio, ciò che gli Arcade Fire hanno fatto dopo Funeral non è solo nemmeno lontanamente paragonabile, per bellezza o importanza, a quell’esordio che ha folgorato l’estetica indie anni Zero, ma è così tanto distante da quelle vette da suggerire la sinistra prospettiva che Funeral sia quello che è più per accidenti estemporanei che non per effettivo talento del gruppo canadese. A maggior ragione, questa deduzione sembra trovare nuovo fondamento nel percorso post-2010 degli Arcade Fire, da tempo incastrati in un bel cul-de-sac creativo: l’uno-due di schifezze aberranti che hanno inanellato con Reflektor prima e soprattutto Everything Now dopo rappresenta uno dei fallimenti più ridicoli, eppure ampiamente prevedibili, in cui un gruppo così grosso sia incappato nella storia recente. 

Scrivo quindi queste righe con la speranza che, dopo questo WE che dobbiamo trattare perché sì, il mondo possa accogliere l’uscita di un nuovo album degli Arcade Fire come accoglie quella di un nuovo album dei, boh, Liars – con una scrollata di spalle, un sospiro annoiato, senza manco ascoltarlo perché tanto che avranno mai da dirci di più i Liars nel 20XX. Eppure, la confezione sembra tirata a lucido per far apparire WE come addirittura un disco rilevante qui e ora: è una sorta di concept album non dichiarato sulla riconnessione tra l’io e il noi in anni di tensioni e ansie, ripartito in quattro pezzi (suddivisi ognuno in due parti) con un brano indipendente – WE, per l’appunto – a tirare le somme in chiusura. Ovviamente, il concept è una porcheria verbosa senza un minimo di acume: evidentemente Win Butler non è capace di parlare di alcunché senza urlare a squarciagola in faccia all’ascoltatore l’opinione più diretta, banalizzata e tagliata con l’accetta che gli è possibile pensare. Non ci sono sottigliezze o sfumature di significato: tutto è ridotto a slogan monodimensionali che sembrano quasi mirare alla viralità piuttosto che alla profondità o all’evocatività delle parole. In realtà, questa poetica così dozzinale e populista è un difetto che è riscontrabile, in potenza, in tutto il materiale degli Arcade Fire fin da Funeral; ma a questo giro, si sposa con una musica tanto sciacquata che i testi sembrano tarpare ulteriormente le ali alle già non eccellenti possibilità del materiale sonoro (è una cosa così deprimente che perfino Pitchfork non può esimersi dal farlo notare). Giusto per dire, i primi versi di Age of Anxiety sono recitati in maniera sproporzionalmente enfatica e sofferta su ‘sto ostinato pianistico degno dei peggiori Coldplay, con un respiro affannoso sotto che emerge a tempo con la musica, e fanno all’incirca così.

Fight the fever with TV
In the age when nobody sleeps
And the pills do nothing for me
In the age of anxiety.

E questo per tacere sul testo incredibile di Unconditional I (Lookout Kid), in cui manco possiamo selezionare un singolo highlight: ci limitiamo a linkarvi il testo e lasciare a voi ogni commento.

SEPARATORE

Ora, a certuni potrà anche far piacere che gli Arcade Fire abbiano comunque tirato fuori un disco migliore di Everything Now, e siano perlomeno tornati alla loro magniloquente formula a metà tra l’heartland rock anni Ottanta e l’indie più grandioso dei Noughties che li ha consacrati (il singolone di lancio The Lightning pareva fatto anche un po’ apposta in questo senso). E magari potranno percepire addirittura come sintomo di maturità e crescita l’aver mantenuto quel substrato sintetico diventato sempre più invasivo a partire da The Suburbs – anche se poi viene sfruttato per partorire tamarrate in odor dei secondi New Order come Unconditional II (Race and Religion), con un terrificante duetto tra Régine Chassagne e nientemeno che Sua Senilità Peter Gabriel. Ecco, a quelle persone muovo un appello accorato: cominciate a volervi un po’ più di bene e a esigere qualcosa di meglio per voi stessi. C’è tanto altro da ascoltare oltre a dei boomer quarantenni che cantano we live in a society sui pezzi alt rock più scemi dell’anno, cerchiamo di raggiungere un mondo migliore in cui la gente non ha la più pallida idea di come suoni il nuovo disco degli Arcade Fire, né la minima voglia di scoprirlo.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia