CONTAINER BELLO

GETTARE IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO: NIGHT RAVER

SPRINGTIME – NIGHT RAVER EP

Joyful Noise

2022

Post-Rock, Noise Rock

Gareth Liddiard è probabilmente una delle personalità più riconoscibili del rock alternativo[1] di inizio secolo. Una lunga militanza e un ottimo riscontro con i Drones, dove affina un linguaggio che dalle fondamenta garage rock e post-punk si riserva tutto lo spazio di sperimentare e di rimescolare le proprie carte; una maturità espressiva con i Tropical Fuck Storm, in cui misura la capacità di accogliere stimoli e spunti sparsi tra i quattro decenni precedenti con un suono più grasso e colmo; infine, una necessità di tornare a una nuova visceralità con gli Springtime. Qui Liddiard condivide la formazione con due grossi nomi della musica australiana come Jim White e Chris Abrahams, rispettivamente batterista dei Dirty Three e pianista dei Necks (solo per citare i contributi più noti di due carriere ricchissime). Gli Springtime sono l’incarnazione più emozionale del songwriting di Liddiard, le cui narrazioni sofferte e livide sono esaltate da un impianto essenziale, scarno e scarnificante, in cui si condensa una tensione perennemente in bilico tra pathos e raptus. Nell’ottimo esordio dell’anno scorso il gruppo attingeva a molte fonti per nutrire questo equilibrio instabile: infestazioni noise rock con particolare fascino del rumore, richiami all’indie più storto e lo-fi e manifestazioni in chiaroscuro delle frange più sperimentali del post-rock. Lo spirito guida del progetto si ritrovava però nel punk blues maledetto di Nick Cave & the Bad Seeds, in quell’incedere senza perdono che spiana la strada al preaching ossessivo del frontman in una specie di esorcismo dei fantasmi della coscienza. Per quanto la formula venisse infusa di crisi rumoristiche ed esacerbazioni narrative, risultando alla fine perfettamente credibile e di un certo interesse oltre che con una propria godibilissima dignità, il nume tutelare aveva una presenza troppo ingombrante sulla direzione del progetto (ascoltarsi The Killing of the Village Idiot per credere, pura venerazione per il periodo di Your Funeral…My Trial e Tender Prey) per immaginare che gli Springtime avrebbero potuto fare molto di più.

Night Raver sulla carta non parte con grandi ambizioni: un pezzo originale più il rifacimento di un brano pubblicato sul disco solista di Liddiard nel 2010 e un frammento live già uscito precedentemente come singolo. Sembra insomma essere la classica pubblicazione di transizione, con una scaletta messa assieme più per dare continuità all’esistenza della band che non per mostrare nuove idee. Eppure. Eppure accade che in questi 41 minuti si sente un’ispirazione molto diversa, e anche se l’impianto rimane lo stesso i territori su cui si esprime sono cambiati. I tre percorrono infatti senza remore la strada di un post-rock fieramente agitato da demoni interiori, che non si appoggia a contaminazioni tra generi e influenze ma piuttosto estremizza gli aspetti più evidenti della propria inquietudine per trovare un’identità problematica ma sincera. È un filone che è sempre stato a disposizione dell’armamentario degli Springtime, se è vero che l’esecuzione live nel 2021 di Penumbra trova la band ad innestare impennate enfatiche alla GY!BE su un incedere che la memoria associa istantaneamente ai Dirty Three. Detto così potrebbe sembrare uno sviluppo quasi regressivo del loro panorama sonoro, secondo la tendenza che ha portato le schiere di epigoni di questi gruppi a banalizzarne le coordinate stilistiche in un crescendocore dove il corpo del brano altro non è che la preparazione di una qualche esplosione emotivo-strumentale. Ma la musica degli Springtime non suona nostalgica né facilona, sia per l’espressività rabbiosa da cuore in mano di Liddiard che per la percepita assenza di vuota premeditazione. Il brano sembra sempre traballante, oscilla tra la costruzione di una struttura e il desiderio di fare tutto a pezzi: questa dicotomia è resa evidente dal confronto tra il conforto del piano e l’anima nera della chitarra, con una tensione elettrica che non si placa mai. E se questo aspetto potrebbe essere favorito dal contesto dell’esibizione dal vivo, la stessa scusante non si potrebbe trovare per The Names of the Plague. Quanto vi può sembrare stupida l’idea di un brano di un quarto d’ora che come testo ha un lungo elenco di soprannomi della peste bubbonica? E invece si tratta di un’opener trascinante e programmatica, che si richiama alle strutture angolari e al chitarrismo sperimentale di Slint e Cul de Sac: mulinelli belluini di chitarra e percussioni incalzanti tengono bordone alla voce urticante, alternandosi a lunghe rimasticazioni strumentali che sembrano dover sputare fuori qualche strano male e che arrivano a lambire i confini di un silenzio disturbante per poi riprendere ancora. I nomi di riferimento qui sono inseriti solo per dare un’idea del contesto, non per inscatolarne i confini; semplicemente gli Springtime non sono mai stati così lontani dal songwriting di Cave e soci, e anche andando a briglia sciolta dimostrano di saper convogliare un’emotività straripante. Mutatis mutandis.

E si arriva poi a The Radicalisation of D, il punto polare del disco. La natura del pezzo è così profondamente radicata nella peculiarità della propria comunicazione narrativa che diventa difficile darne un giudizio oggettivo parlando “solo” di musica: o si ama o si odia. Si può comprendere benissimo la frustrazione di fronte a 18 minuti di esposizione volutamente monocorde, l’indifferenza per una veste musicale di simile natura che mantiene sostanzialmente tutto l’impianto già presente nella versione voce e chitarra di Strange Tourist senza nessun colpo di coda, il dubbio riguardo alla necessità di una simile operazione. Per chi scrive rappresenta invece un ampliamento non da poco dell’orizzonte espressivo degli Springtime, la dimostrazione che non c’è bisogno per forza di una presenza istrionica o di esasperare il gioco di contrasti per lasciare il segno. Il coming-of-age desolato del brano, ispirato a David Hicks e inframmezzato di dettagli biografici di Liddiard stesso, guadagna forza proprio dal suo stendersi ripetitivo e drammaticamente uguale a se stesso, come il percorso vissuto dal protagonista, privo di prospettive che non siano annichilenti. Di fronte a questo basta un verso rimarcato con più forza dalla voce, una distorsione tenuta più a lungo, una nota di piano più strozzata a dare la misura del dramma di fondo. Le immagini evocate hanno una carica emotiva tale da non aver bisogno di trucchi a supporto. Nella parte conclusiva in cui lo sguardo si amplia dal vissuto personale al conflitto umano su scala globale, quanto sarebbe stato deludente – e, in fondo, omologante – un finale con classica esplosione strumentale per rappresentare nella maniera più didascalica possibile il tormento interiore che si riversa fuori? Risuona invece molto più a fondo la scelta di sottolineare il passaggio solo attraverso una graffiatura più rabbiosa e intensa della voce, una venatura di rumore nella strumentazione e nulla più, un livore che vorrebbe abbattere tutto lo schifo e che invece ne risulta soffocato. Da questa prospettiva, tutto Night Raver mostra una consapevolezza dei propri mezzi che non si arrende al percorso più facile: merita davvero di essere tenuto in considerazione, in attesa del prossimo passo.


[1] Per mancanza di una definizione migliore – credo.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto