CONTAINER BRUTTO

ECCO IL PEZZO DOVE FINGIAMO DI AVERE QUALCOSA DA DIRE SUL NUOVO DEI METALLICA

METALLICA – 72 SEASONS

Blackened

2023

Heavy Metal

72 Seasons è l’undicesimo album in studio dei Metallica ed è una merda. Entrambe sono proposizioni ovvie e auto-evidenti: per esempio, è un facile esercizio proposto al lettore verificare che 72 Seasons sia effettivamente l’undicesimo album in studio e non, boh, il settimo. Una possibile strategia può essere contare sulle dita delle mani tutti i dischi dei Metallica andando in ordine cronologico partendo da Kill ‘Em All: quando alzerete l’ultimo mignolo – il decimo dito, appunto – sarete arrivati al precedente Hardwired… to Self Destruct e quindi potrete concludere agilmente che 72 Seasons non può che essere il titolo n° 11 nella loro discografia. Allo stesso modo, basta ascoltare 72 Seasons una volta sola, front to back, avendo un minimo di consapevolezza della loro storia e dello stato dell’arte della musica metal per concludere che si tratti di un disco ridicolo. Per semplicità, anche in questo caso suggerisco una possibile traccia di ragionamento: mettete su un momento il primo singolo estratto, Lux Æterna. Cercate di sopportare il fastidio per, al solito, una scelta pessima dei suoni, con l’equalizzazione livellata che massacra ogni senso di dinamica del pezzo, i piatti della batteria unici a ergersi più alti nel mix rispetto al resto della strumentazione, e il tono più anonimamente hard & heavy concepibile per le chitarre di James Hetfield e di Kirk Hammett. Arrivate quindi al riff portante che rasenta l’auto-plagio di Hit the Lights (e peraltro universalmente riconosciuto: ai tempi dell’uscita qualcuno aveva addirittura accelerato leggermente la traccia strumentale di Lux Æterna e vi aveva sovrapposto quella vocale di Hit the Lights). Godetevi delle rime baciate del calibro di «anticipation and domination» e «magnification all generations» (vabbè che non è che i Metallica storici fossero chissà che parolieri, però…). Ovviamente non perdetevi nemmeno l’immancabile assolo di chitarra: praticamente Kill ‘Em All con il catetere ancora attaccato.

Ho preso Lux Æterna ma è solo una scelta di comodo: in tutti i pezzi di 72 Seasons il quid nevralgico è una riproposizione dei cliché introdotti dai Metallica stessi sui primi quattro dischi, però eseguiti e registrati con i mezzi del Black Album – e quindi: rallentando i tempi, inciccionendo i bassi, ingrossando goffamente i volumi, con un occhio di riguardo al ritornello da arena da cantare a squarciagola in concerto. Il tutto, ovviamente, con la forza, l’energia e il tiro di pensionati. (Curiosamente, però, questa cosa non svantaggia Lars Ulrich, che costretto com’è a suonare alcuni dei groove in 4/4 più quadrati e ingessati partoribili da mente umana si trova inaspettatamente a suo agio e offre una prova solida, contro ogni facile malignità nei suoi confronti.) Se siete fan dei Metallica come me addirittura l’ascolto può offrire l’occasione per sfidarvi in un divertente gioco di “quale pezzo storico stavano cercando di rifare in questa parte qua?”. Per If Darkness Had a Son il modello è sicuramente Eye of the Beholder, ma per Sleepwalk My Life Away potrebbe essere Enter Sandman? Forse Too Far Gone? ha qualcosa di No Remorse per il tramite di Moth into Flame (da Hardwired… to Self Destruct)? E che dire del breakdown su You Must Burn che è preso di peso da quello di Sad But True? Il limite è il cielo: divertitevi.

Ma non è manco del tutto colpa loro, poveracci. Questi hanno sessant’anni e zero stimoli, hanno passato quasi vent’anni a ricevere palate di fango perché hanno smesso di suonare thrash metal aprendosi a sonorità più classicamente hard & heavy con il Black Album, magari convincendosi pure che il problema fosse il fatto che non suonassero più come su Kill ‘Em All o Master of Puppets e non il fatto che si cimentassero in una forma di hard rock tra le più scontate e prevedibili concepibili (ricordate che comunque i vecchi sono persone mentalmente molto fragili: siate sempre molto chiari quando interagite con loro). Magari nella loro ingenuità avranno pensato che ritornando a sonorità più dure, riscrivendo riff più riconoscibilmente Metallica, ricominciando perfino a fare i brani lunghissimi per accalappiare facili paragoni con Orion, The Call of Ktulu e To Live Is to Die (su 72 Seasons c’è Inamorata a chiudere il disco con undici minuti di niente aromatizzato all’hard rock vagamente Southern di ReLoad: imperdibile) sarebbero stati trattati nuovamente con rispetto.

E l’orrore è che avevano ragione i vecchiacci: 72 Seasons non è stato stroncato all’unanimità! Anzi, Rolling Stone titola addirittura che si tratti di «some of the deepest, hardest-hitting music» nella carriera dei Metallica (quelli che hanno registrato roba come Seek & Destroy e Fight Fire with Fire, avete presente?).  Da altre parti, il Guardian si rivela tutto sommato soddisfatto del lavoro, e Kerrang e il NME si spingono addirittura a elargire un bel 4/5; Pitchfork si limita invece a dargli una sufficienza abbondante – una sufficienza che però pare motivata dal non farsi troppi nemici, visto che qua e là instilla il dubbio che «no single song sustains that level of excitement for its duration». In Italia la situazione non va tanto meglio: a parte Ondarock che l’ha stroncato con un 5 perentorio che non lascia spazio a interpretazioni, ci sono ImpattoSonoro che definisce 72 Seasons un «compito riuscito», Metalitalia che si sbilancia con un 7 ma bollandolo comunque «innocuo», e infine SentireAscoltare – figuratevi se potevano perdere occasione di sedere dalla parte del torto – che si accoda con un altro 7 chiudendo però la recensione con una riflessione molto più disillusa e meno entusiasta di quanto un numerino del genere possa lasciar pensare: «ogni minuto della sua durata ti ricorda che è una corsa fatta da sessantenni. La forma è ottima, per carità, ma lo sguardo per quanto volutamente nostalgico nulla può contro il tempo che passa […] venderci quest’album come un ritorno alle origini non rende giustizia ai Metallica attuali, né ai nostri anni di liceo». Possibile che basti qualche cazzata intorno alle 72 stagioni come metafora della giovinezza che plasma indelebilmente la personalità dell’individuo per imbastire discorsi intorno al proprio passato e, infine, sopportare e talvolta addirittura giustificare concettualmente una sequela di autoplagi eseguiti con il pilota automatico da dei rottami? Perché questa tolleranza verso un lavoro così poco ispirato e così prolisso nel suo minutaggio? Il fatto che i Metallica siano diventati, trent’anni fa, la band più grossa della storia del metal deve per forza comportare una genuflessione delle grosse testate di fronte a un lavoro tanto patetico, stando attenti a misurare le parole per non rigare troppo il parquet? Sono davvero tutti pagati tranne noi? Perché se non è questione di soldi l’unica altra alternativa è essere davvero scemi come l’acqua dei lupini.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia