FIRE! ORCHESTRA – ECHOES

Rune Grammofon

2023

Experimental Big Band

Dai giornalisti e dalla critica musicale, l’opera di Mats Gustafsson è sempre stata collocata senza troppi indugi nell’alveo dell’avant-jazz nord europeo. D’altronde, Gustafsson è un sassofonista (e quindi jazzista, di default) che ha collaborato con musicisti come Barry Guy, Paal Nilssen-Love, Peter Brötzmann, Ken Vandermark: è perciò evidente che un profondo legame con questo movimento ci sia, innegabilmente. Tuttavia, come musicista jazz Gustafsson è poco più che mediocre: le sua capacità come improvvisatore sono misere; il suo eloquio al sassofono tenore è incerto e sembra capace di esprimere soltanto un unico concetto per mezzo di uno strepitio assordante di tecniche estese (l’overblowing, il growl, il frullato che è un suo marchio di fabbrica); le sue doti come bandleader sono al meglio discutibili. Ricordo ancora un disco tremendo del suo trio Fire! (il titolo era She Sleeps, She Sleeps) che nel modo in cui metteva a nudo la sua poca familiarità con le forme del jazz era quasi destabilizzante. Piuttosto, il suo pregio principale va ricercato non tanto nella dimensione jazzistica quanto nella sua apertura a generi e mondi differenti: ha collaborato con Merzbow, con Kieran Hebden, con gli Zu, con Thurston Moore, perfino con dei misconosciuti death-metallari francesi come i Chaos Echœs. E Gustafsson offre il meglio di sé proprio quando si cimenta in musiche che richiedono, più che il bagaglio tecnico jazzistico propriamente detto, soltanto i timbri e i volumi dell’improvvisazione radicale, da utilizzare come orpello da innestare in musiche proteiformi in cui il jazz diviene semplicemente una delle tante ispirazione alla lontana.

Un discorso simile, mutatis mutandis, si può applicare anche alla sua Fire! Orchestra. Nonostante gli ovvi riferimenti ad alcuni dei più eccentrici ensemble allargati della storia del jazz come quelli di Carla Bley, la Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e – ovviamente – la Arkestra di Sun Ra, dischi come Exit! ed Enter erano lavori grandiosi proprio perché la front line popolosa di ottoni, l’improvvisazione dei fiati, e l’impostazione da big band venivano utilizzate per speziare una musica più popolare e nerboruta, molto gioconda e vitale, profondamente segnata dal soul, dall’art pop, dal krautrock, dalla psichedelia, dal funk. Quando la Fire! Orchestra ha aggiunto elementi nuovi a questo impasto sonoro (per esempio, la sezione di archi di estrazione accademica in Arrival), le cose sono andate bene perché si è ampliato ulteriormente il raggio d’azione; quando ha invece provato ad approfondire e affinare la formula già collaudata (cfr. Ritual) è venuto meno l’effetto sorpresa e sono emersi prepotentemente i limiti tecnici e soprattutto di scrittura del gruppo, che abusa di groove ritmici molto statici e giri armonici ricorrenti come una boa di salvezza per dirottare lo svolgimento dei propri pezzi. Quando poi ha osato un più esplicito tentativo di omaggiare la tradizione jazz su Actions, che celebrava l’omonimo esperimento di improvvisazione controllata diretto da Krzysztof Penderecki ed eseguito dalla New Eternal Rhythm Orchestra di Don Cherry nel 1971, la limitatezza del vocabolario jazzistico della Fire! Orchestra si è rivelata sinceramente deprimente.

Tutta questa lunga introduzione già contiene tutti gli argomenti che si possono portare per sostenere che l’ultima prova in studio dell’orchestra di Gustafsson sia sostanzialmente un fallimento. Echoes, pubblicato dalla solita Rune Grammofon a metà aprile, è decisamente il progetto più ambizioso – perlomeno sulla carta – di tutta l’operazione Fire! Orchestra: è un doppio album di oltre cento minuti (di gran lunga il minutaggio più elevato nella loro discografia), di cui quasi novanta sono dedicati ai sette movimenti della title track. Perdipiù, Echoes vede affaccendarsi una formazione enorme di oltre quaranta elementi, che comprende una quindicina di fiati, due violini, il compositore Mats Lindström a gestire la live electronics, e che ospita perfino l’istituzione del sassofono free jazz Joe McPhee e il batterista David Sandström dei Refused (oltre che Jim O’Rourke in cabina di regia). Tuttavia, queste non sono belle notizie. Nelle varie tracce che compongono Echoes, che sono anche quelle che utilizzano il numero più ampio di musicisti nello stesso momento, emergono tutte le debolezze dell’approccio alla scrittura per big band della Fire! Orchestra, che vengono ulteriormente aggravate dall’inedita mole di strumentisti a disposizione e dall’inesperienza nel jazz di diversi di loro. La musica di Echoes appare poco propensa ad adottare l’inflessione ritmica più sciolta e le sottigliezze ritmiche che rendono eccitante il genere: in particolare, il costipato groove di basso, batteria e piano elettrico che arpiona l’improvvisazione (che è sempre lo stesso in ogni brano, e che peraltro sembra una versione slavata di quelli che si ascoltavano nei dischi precedenti) è privo tanto dello swing delle big band tradizionali quanto delle asperità ardite di quelle più avant-garde e post-moderne, ma manca anche del tiro ipnotico del deep funk in stile Metrics. È, semplicemente, un  modo molto scontato di fissare un porto ritmico e armonico sicuro cui i vari elementi dell’orchestra possano tornare, senza troppa fatica, in seguito alle proprie escursioni solistiche: se avete assistito a concerti jazz di musicisti non proprio eccellenti dal punto di vista tecnico avrete idea del suono ordinato e ingessato che emerge da un escamotage tanto scontato. Ancora più problematico è il fatto che nemmeno gli assoli siano questo granché: la Fire! Orchestra non è capace di coniugare efficacemente così tante voci diverse, e quindi il loro interplay si risolve nell’estenuante elaborazione all’unisono di temi nemmeno particolarmente sofisticati e memorabili, che il più delle volte collassano in un’esplosione cacofonica dopo minuti interminabili di crescente tensione. Sono certo che nelle intenzioni della Fire! Orchestra queste deflagrazioni dovrebbero rappresentare dei momenti di catarsi collettiva e un punto di approdo dell’intero discorso musicale (poverini), ma la realtà è che anche questo è un mezzuccio molto in voga tra certi ensemble estesi del jazz europeo che non sono davvero capaci di gestire il volume sonoro offerto da un numero di musicisti tanto grande e non sono capaci di risolvere in alcun modo la performance collettiva se non calpestandosi i piedi a vicenda in nubi di puro caos (un altro esempio negativo in questo senso, per rimanere in Svezia, sono gli Angles). In questo massacro, si distinguono parzialmente soltanto Echoes: To Gather It All. Once., l’unica traccia in cui si può riascoltare la voce di Mariam Wallentin e quindi respirare nuovamente l’atmosfera di Exit! ed Enter, e specialmente Echoes: Cala boca menino, in cui finalmente il groove si fa più incalzante e il contrappunto tra tastiere, ottoni e voce più sciolto, con perfino qualche accenno poliritmico nella tela intessuta da pianoforte, batteria e percussioni assortite sullo sfondo. Complessivamente, però, non cambia di una virgola il giudizio impietoso su Echoes: insieme, non occupano manco un terzo della sua durata totale.

Nei pezzi non-Echoes, invece, il disco offre qualcosa di più sostanzioso – perlomeno perché viene meno la pretesa di suonare un’ambiziosa suite jazz, e l’orchestra può finalmente cimentarsi con qualcosa con cui si trova più a suo agio. Nella tetra parentesi elettroacustica di Sliding Whisper of Pain, nella sciamanica fourth world music per berimbau solista di Nothing Astray. All Falling (o in quella invece più selvatica e percussiva di In Those Veins. A Silvernet), o ancora nel vago innuendo alla musica da camera in Respirations, Echoes – ormai libero dagli ormeggi di un genere che il gruppo non padroneggia – si avvia finalmente verso l’esplorazione di territori sonori certamente più accidentati e scoscesi, ma anche meno imbalsamati e, quindi, più affascinanti. Il fatto che l’atmosfera notturna e distorta che si respira in queste vignette collaterali cozzi così nettamente con quella invece più grandiosa e urbana dei vari movimenti della title track, aspetto che per esempio viene criticato su ImpattoSonoro, è in realtà un grosso punto a favore nella fruizione di Echoes: almeno, si può respirare un po’ di aria fresca tra l’ennesimo muffoso giro di contrabbasso e l’arrangiamento di archi più plasticosamente cinematico che possiate ascoltare su un disco jazz di quest’anno.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia