cLOUDDEAD

She’s calling
She’s calling me tonight
From just inside my lips
And I’ll write her
Betterment of the world through wish
Wish I’d fall off, growing distant
I’ll write her
And pull my face fresh
From the waxy palms it’s kept soft in

Negli anni a cavallo tra i nineties e i noughties il mondo dell’hip hop ha vissuto un periodo d’oro in termini di allargamento degli orizzonti artistici – forse il migliore, ad oggi, di tutta la sua breve storia. Album innovativi e visionari ci sono stati sin dall’inizio, e alcuni dischi di fine anni ’80 suonano freschissimi anche adesso, ma fu tra il 1998 ed il 2001 che molte nuove leve dell’underground esplosero, sparpagliando la loro creatività in un panorama ormai saturato dalla dicotomia tra gangsta rap e beatmaking jazzato per personcine a modo. Pilastri dell’hip hop alternativo come dälekAesop RockEl-PBoom BipMF Doom e Cannibal Ox germinavano tutti in questo periodo, alcuni maturando, altri sfornando capolavori dallo stile già ben definito. La ragione di questa floridezza potrebbe essere di tipo storico: molti degli artisti menzionati sopra (nati tra sixties e seventies) hanno avuto la possibilità di assistere alla graduale evoluzione del genere meglio di qualsiasi altra generazione, vivendo e assorbendo appieno lo spirito della Golden Age per poi vederlo assimilato nei modi più disparati dalla scena underground degli anni novanta. Nell’elencare artisti così diversi ho però volutamente omesso un’intera label altrettanto seminale, che ha i natali proprio nel 1998 ed i cui massimi esponenti verranno adeguatamente sviscerati nelle righe a venire: in California nasceva la anticon. Records.

Le prime due release dell’etichetta sono compilation con tutta l’aria di dichiarazioni d’intenti: Hip Hop Music for the Advanced ListenerMusic for the Advancement of Hip Hop. Partecipano quasi tutti i membri fondatori, come solisti oppure in collettivi e gruppi dalla vita più o meno lunga; a prescindere dalle varie formazioni, sono condivisi l’approccio e la volontà di cambiare le carte in tavola attraverso un linguaggio musicale del tutto nuovo. I testi diventano più astratti, procedendo spesso per associazioni di idee e immagini invece di lasciarsi andare al boasting & bragging, prima molto ricorrente nell’MCing di artisti underground e non. La componente musicale è invece meno articolata, e si differenzia dai classici lavori hip hop sperimentali più per le atmosfere che per i singoli elementi: beat e campionamenti sono ancora parti centrali del discorso musicale, ma appaiono motivati da un desiderio artistico completamente differente, figlio in spirito di ambient ed elettronica, che punta alla creazione di panorami più riflessivi ed ha il proprio fulcro al di fuori della quasi onnipresente ricerca del groove attuata in precedenza – si potrebbe anzi dire che il groove nell’accezione canonica del termine viene praticamente evitato. Sebbene prodotti indubbiamente interessanti, queste compilation risultano a tratti un po’ acerbe, a volte per la verbosità di testi e delivery, a volte per la poca maturità delle parti strumentali. Era però nato un nuovo nucleo di musicisti, dagli obbiettivi già molto definiti, i cui frutti si sarebbero visti nei mesi a seguire col debut dei Deep Puddle DynamicsThe Taste of Rain… Why Kneel?, più innovativo e maturo delle precedenti release anticon.. Fu più o meno in questo periodo che Adam Drucker aka Doseone, David Philip Madson aka Odd Nosdam e Yoni Wolf aka Why? cominciarono a preparare, raffinare e mettere insieme testi e basi prodotte spesso in solitaria (perfino in casa dei genitori) sotto il nome cLOUDDEAD, termine senza senso derivante da un knock-knock joke sbagliato che Doseone sentì dire da sua sorella quando aveva cinque anni. La compilation che ne deriva, composta da sei 10” di due tracce appositamente numerate, è ad oggi uno dei massimi capolavori del genere, capace di frammentare l’idea stessa di hip hop, rivoluzionandola.

Prima di parlare dell’album in sé, è però necessario dare qualche informazione sugli inizi di ciascun membro; è infatti importante definire meglio il terreno che ha portato alla nascita di cLOUDDEAD, cercando di fornire almeno un assaggio del contesto sociale ed artistico dimostratosi poi così fertile per il gruppo. Why? e Doseone frequentavano entrambi l’università di Cincinnati, ma il loro primo incontro avvenne durante una battaglia rap al festival Scribble Jam (in quell’occasione, peraltro, Doseone andò anche contro Eminem). Rivedendosi poi al campus i due fecero amicizia, legati da rispetto reciproco per il loro spiccato – seppur acerbo – spirito artistico, che esprimevano attraverso graffiti, poesia, pittura e musica. Odd Nosdam si unì a loro un anno dopo, nel 1998, e venne introdotto al mondo dell’hip hop più particolare e misconosciuto da Doseone, che al tempo era entrato in contatto con la musica di artisti come Sole e Buck 65. Madson in quel periodo stava già producendo musica, costruendo beat e campionando su un registratore a otto tracce che sarà poi utilizzato anche nella creazione di cLOUDDEAD. Il rapporto tra i tre era particolare e turbolento, ma fautore di forte ispirazione: su disco se ne ritrovano segni nell’intima parentesi contenuta in Apt. A (2), dove la vita da coinquilini squattrinati in un appartamento di Cincinnati viene metabolizzata in una sequenza di immagini astratte ma imbevute di quotidianità, accompagnata da un drone dolce e disteso e inframezzata dal beat casalingo per eccellenza, il suono di un frullatore premuto ritmicamente. Intorno al trio, i tempi erano altrettanto caotici: la anticon., proprio perché fondata sui valori dell’individualità e dell’autoproduzione, era un calderone di opinioni differenti, e non mancavano certo litigi intestini o rotture. Anche esternamente all’etichetta ci furono vari episodi spiacevoli con altre label di punta dell’hip-hop alternativo, come Def Jux e Rhymesayers, e l’incapacità di tenere una linea comune era in queste problematiche una lama a doppio taglio. Tutto era perciò impegnativo e stancante, e poiché l’intera operazione non costituiva fonte di alcuna stabilità economica, ognuno dei tre doveva contemporaneamente lavorare, produrre musica e rimanere coinvolto nella scena sviluppatasi attorno a loro. Guidando in una tempesta di neve la macchina di David, che stava guidando con Yoni accanto, finì fuoristrada in un fosso dopo aver miracolosamente mancato un albero: ripensandoci dopo, in una stazione di servizio, i due presero la definitiva decisione di formare seriamente il gruppo.

Nonostante una buona fetta di giornalismo musicale preferisca considerare come apice del gruppo Ten, il loro primo vero e proprio LP, il gap di importanza con la compilation omonima mi appare assolutamente palese. Ed io considero Ten poco meno di un capolavoro. Dall’altra parte della bilancia, però, c’è uno dei dischi più essenziali dell’intero genere, un’opera di bellezza e intelligenza spaventosa che ha pochi precedenti e nessun vero erede. L’aspetto vitale di cLOUDDEAD è la sua programmaticità, o per essere più specifici l’intento di liberazione del linguaggio e della struttura hip-hop tramite distensione e frammentazione di musica e testi: traccia dopo traccia, un attento ascoltatore potrà percepire che il senso non si esaurisce nelle costruzioni surrealiste o nelle velate allusioni personali presenti nella scrittura, bensì che tutto è unito da un filo conduttore teso verso qualcosa di molto specifico. Questa sensazione fondamentale fornisce inusuale compattezza e coerenza a quella che si presenta come una compilation, ma in definitiva sembra più un album vero e proprio. La volontà alla base di cLOUDDEAD permea ogni suo minuto di musica, senza tuttavia portare ad una diminuizione della fruibilità o all’inaridirsi della potenza espressiva: dalla matassa di idee e sperimentazioni sembrano uscire fuori soltanto lati positivi. Ma cos’è che trattiene un disco così drasticamente innovativo e particolare dal suonare eccessivo e stancante? Una possibile spiegazione mi è balenata dopo l’attento ascolto degli altri (numerosi) progetti dei tre artisti coinvolti: cLOUDDEAD rappresenta una mistura assai riuscita tra le personalità di Doseone, Why? e Odd Nosdam. Questa unione rende l’album estremamente vario, denso di idee, ma fa anche sì che le connessioni tra ciascun nucleo musicale siano sempre perfettamente percebili ed altrettanto importanti. In cLOUDDEAD risuona la cerebralità di Doseone, il suo particolare umorismo e il suo gusto per un surrealismo quasi nevrotico, così come risuona la particolare estetica di Why? e il suo approccio all’hip-hop*; Odd Nosdam, infine, incapsula tutto ciò in una non-struttura schizofrenica, fatta di episodi catchy e tappeti ambient sognanti alternati a sciami di campionamenti tra lo strano e l’inquietante. Il risultato, più che a una serie di tracce, assomiglia a un flusso di coscienza compatto dove di tanto in tanto lo stile di uno dei tre sembra prendere il sopravvento, per poi tornare rapidamente ad amalgamarsi: Bike (2) e la sua ritmicamente bizzarra parte spoken word per Doseone; il primo potente verso di JimmyBreeze (2) per Why?, dove allegorie e musica si fanno per un minuto squisitamente pop; il trionfo di sampling di And All You Can Do Is Laugh (2) per Odd Nosdam, dove il DJing si fa più prominente anche per la collaborazione con DJ Signify.

Un ulteriore esempio della grande varietà di atmosfere contenuta nell’album si può avere guardando più da vicino la gamma di panorami musicali presentata nella prima delle due parti di And All You Can Do Is Laugh: l’inizio è al contempo ipnotico, scuro e umoristico, un ping pong di parole con le voci di ciascun membro abbassate di tonalità; si passa poi alla weirdness di un distorto incitamento alla diversità (Should the rules by which a desert cactus lives / Be adopted by the sycamore as well?) posto sopra a un tessuto musicale dissonante e disarticolato; quindi, in un cambio radicale introdotto dal lieve campionamento manipolato di un treno, si arriva ad una delle parti più dolci di tutto il disco, dove un drone ambient apre ai temi della nostalgia, del tramonto e del tempo. Tale viaggio si ha in meno di cinque minuti di disco. cLOUDDEAD è dunque poliedrico ed eclettico, ma ogni sua faccia riluce allo stesso modo, assimilando panorami diversissimi e declinandoli con lo stesso vocabolario, eccellendo in ogni scelta, sia essa espositiva o atmosferica.


*NDR: Se non ritenessi il paragone estremamente dispregiativo, parlerei del rapper Milo per far capire almeno in parte a che estetica ed approccio mi riferisco: un insieme di immagini in ultima analisi molto pop, create e portate avanti per vie estremamente traverse. Nel contesto di Why?, questo stile espressivo è affrontato con molta più profondità ed autenticità, senza gli eccessi patetici e macchiettistici di Milo.

It’s interesting and impressive to watch a human being make an apple pie. You get apples and crust bullshit, bake it your way just right – sure all very swell. Yay. Yum. But to watch a human being make an apple, now that’s what I want to see – to create the ‘thing’ before there is a context for the ‘thing’.

– Doseone, intervista su FACT Magazine

Quando l’artista dice la sua sulla propria opera le cose si fanno piuttosto complicate. Il lettore deve, a mio avviso, essere capace di prendere determinati accorgimenti per evitare di interpretare tutto in una luce sbagliata, e deve soprattutto tenere in mente che chi parla è una persona, non un’entità dalla mente insondabile. È perciò successo più volte che io mi trovassi in completo disaccordo con come l’artista vede la sua stessa creazione: che fare in un momento del genere? Se da una parte l’autore possiede una vasta gamma di informazioni, ragionamenti e astrazioni riguardo l’opera naturalmente inconoscibili per chiunque altro, dall’altra esso è soggetto anche per questo stesso motivo a un bias verso determinati elementi che un osservatore esterno può invece soppesare in maniera molto più neutra. Oltre a ciò, l’arte non è mai esatta, e il passare del tempo insieme al cambiamento della società contribuisce a rendere i confini del significato di un’opera ancora più sfocati. Nel caso di cLOUDDEAD, ad esempio, Why? ha dichiarato di odiare il suono della sua voce in questo album, e ciò porta con sé l’incapacità di considerare i profondi benefici che una produzione e registrazione lo-fi portano in un disco che viaggia su questi binari stilistici. Il punto di questa piccola considerazione finale è che nel parlare di un album così particolare, fatto da persone altrettanto particolari in anni cruciali per il genere musicale interessato, occorre essere cauti su alcune supposizioni, ma allo stesso tempo prendersi la libertà di interpretare alcuni aspetti del lavoro nella chiave che appare più opportuna. Dopotutto la scrittura di musica, così come la musica, è un gioco di incertezze.

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David Cappuccini
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