THESE NEW PURITANS – CROOKED WING
Il percorso artistico dei These New Puritans è emblematico di un certo trend che si può riassumere pressappoco così: un gruppo nasce sotto il segno di un suono ispido e spigoloso, e trova infine la propria raison d’être in una musica più letargica e anemica – ottenendo così larghi consensi presso una platea imbolsita che puntualmente scambia il grigiore dell’appassimento per la severità dell’età adulta. È una tendenza che abbiamo riscontrato varie volte nella musica della terra d’Albione – l’ultima volta ne abbiamo parlato a proposito degli Squid – ma con i These New Puritans è una ferita molto più sanguinante per due motivi. Innanzitutto, perché quando i These New Puritans producevano ancora musica chiaramente riconoscibile come “rock” hanno toccato vertici creativi eccezionali, specialmente in Hidden che rimane tuttora uno dei dischi più belli e proteiformi del panorama inglese del nuovo millennio. In secondo luogo, perché nel loro caso la svolta più contemplativa pareva sinceramente riuscita, almeno in principio: le orchestrazioni lussureggianti ed eteree di Field of Reeds si muovevano in continuità concettuale con le ambizioni più cameristiche ed enigmatiche di Hidden, esaltandone gli influssi minimalisti e accademici a discapito della forte pronuncia ritmica marziale e dell’esplosività timbrica più dinamitarda. In un periodo in cui ancora non era scontato che un gruppo rock dovesse per forza cimentarsi con una versione amorfa e artsy della propria musica, Field of Reeds era stato un album sinceramente sorprendente – più pesante e meno vario di Hidden, ma non per questo non meritevole del plauso che ha accompagnato la sua uscita.
Flash-forward al 2025, e tutte le promesse di Field of Reeds sono state disattese. Prima Inside the Rose nel 2019, e ora questo ultimo Crooked Wing uscito a fine maggio, hanno segnato numerosi passi indietro verso una forma di art pop più tronfio che austero, riuscendo nel miracoloso obiettivo di rendere più snelle, lineari e prevedibili le strutture e al contempo rendere più inconcludente lo sviluppo narrativo dei brani. Più che all’ultimo David Sylvian, ai tardi Talk Talk, ai Bark Psychosis o a Philip Glass – alcuni dei riferimenti possibili per descrivere quanto realizzato su Field of Reeds – quanto fatto dai These New Puritans su questi ultimi due dischi ha a che vedere con una forma di pop slavato e annacquato tramite le influenze dell’ambient, della darkwave e della new age, tutte rigorosamente nella loro declinazione più sciropposa e neoclassica. Ma se perlomeno Inside the Rose, con qualche scaltro marchingegno, riusciva qua e là a fregare l’ascoltatore, suggerendo legami con il materiale maggiore dei These New Puritans (le percussioni industriali su Into the Fire) o restituendo almeno parzialmente la stessa presenza sacrale dei Dead Can Dance di The Serpent’s Egg (cfr. Infinity Vibraphones), questo nuovo Crooked Wing è uno strazio senza soluzione di continuità. Ascoltando i sette minuti di Bells, o il terribile duetto con Caroline Polachek di Industrial Love Song, o ancora le lagne I’m Already Here e The Old World, si rimane sinceramente perplessi nel constatare quanto i These New Puritans siano diventati monodimensionali, quante poche idee in fase di arrangiamento e scrittura abbiano a propria disposizione per apparire solenni, quanto sia limitata la loro gamma espressiva. Ogni brano è un’accozzaglia di tappeti di tastiere e organi sempre uguali a se stessi, condita dal suono di campane e vibrafoni che si infiltrano tra i motivi ostinati di pianoforte, cori di soprano e voci bianche (cortesia del Southend Boys Choir) che conferiscono alla musica di Crooked Wing una dimensione “intellettuale” – o questo immagino sia l’obiettivo dei fratelli Barnett, poverini. La varietà degli ingredienti utilizzata è talmente misera che ci si ritrova a dover fingere sorpresa nel sentire qualche impronta percussiva più pronunciata su A Season in Hell, qualche traccia elettronica più ominosa su Wild Fields (I Don’t Want to), o l’assolo di Yazz Ahmed su Goodnight: su un lavoro come Hidden questi orpelli non sarebbero nemmeno notati, ma qua appaiono per contrasto come guizzi creativi.
Non c’è nemmeno bisogno di descrivere come tutti questi ingredienti vengono amalgamati nella materia musicale di Crooked Wing, perché semplicemente non lo sono. Per tutti i quarantasette minuti dell’album, la musica dei These New Puritans galleggia nell’etere in una situazione di stasi, senza nemmeno provare a far finta di seguire un arco narrativo o uno sviluppo logico consequenziale, nemmeno tentando il più scontato accumulo di tensione con exploit in crescendo che ormai sono capaci di fare tutti. È quindi solo un accidente il fatto che la durata di questi pezzi sia quella che possiamo infine constatare su Crooked Wing: potrebbero durare la metà, o il doppio, o il triplo o un terzo, e non cambierebbe nulla se non il tempo richiesto all’ascoltatore per arrivare alla fine. Si tratta di una delle prove di orchestrazione più imbarazzanti che mi sia mai capitato di ascoltare, e fa specie vedere come arrangiamenti tanto esangui, realizzati oltretutto in maniera tanto amatoriale, vengano visti dalla critica musicale come ricchi e sontuosi. A tal proposito, vale la pena citare l’esempio di Pitchfork (ovviamente, sono sempre loro) che per descrivere la musica di Crooked Wing ha avuto l’ardire di tirare in ballo Benjamin Britten (evidentemente perché il suo nome appare su un testo scritto da Jack Barnett stesso per descrivere la musica che i These New Puritans stavano realizzando proprio ai tempi di Hidden). Naturalmente, è impossibile che una persona che abbia ascoltato qualche opera di Britten e che simultaneamente sappia ciò di cui si sta parlando possa pensare di sentire la sua influenza in questo continuo piagnisteo, ma a chi parla di musica oggigiorno non pare davvero importargliene di descrivere la realtà delle cose.
E per ovviare a un tessuto sonoro tanto ammorbante e monocorde, ecco la giocata del Diez definitiva, con Jack Barnett che canta per tutto il disco con il tono più lamentoso di cui è capace, senza alcuna variazione di timbro o emozione espressa, livellando tutto sulla stessa dimensione svenevole e yorkizzata: è vero che non è mai stato esattamente un Peter Hammill, ma almeno il ventaglio interpretativo offerto da una We Want War – per fare un esempio a caso – non mi sembra una richiesta irricevibile. Eppure, per certo giornalismo musicale (una buona fetta, purtroppo) questo è ciò che dovrebbe essere la maturità di un gruppo rock: una musica languida, priva di nerbo, tediosa, uggiosa, privata di ogni dinamismo e svuotata di ogni pulsione verso la contemporaneità. Il che descrive perfettamente sia Crooked Wing, sia la visione estetica di chi lo ritiene un album riuscito.