CONTAINER BRUTTO

BELLA NOIA ‘STI BELL WITCH

BELL WITCH – FUTURE’S SHADOW PART 1: THE CLANDESTINE GATE

Profound Lore

2023

Doom Metal

Il relativo successo di un gruppo come i Bell Witch non può dirsi davvero sorprendente – conosciamo tutti bene come funzionano le dinamiche di hype e sovraesposizione delle band metal negli ambienti alternativi e (tra mille virgolette) indie – ma proprio per questo constatarlo non può che riempire di amarezza e frustrazione. Mirror Reaper, il disco del 2017 che li ha consacrati agli occhi di un pubblico non più esclusivamente metallaro, era funeral doom metal by the numbers che sembrava partorito da un’intelligenza artificiale dopo avergli dato in pasto la descrizione del genere tratta direttamente dalla relativa pagina Wikipedia: minutaggio esasperato, tempi rallentati in maniera insostenibile, zero evoluzione del materiale melodico o ritmico, praticamente ottantatré minuti di niente. Sembrerebbe la descrizione del più inintellegibile prodotto di qualche clone dei Thergothon o degli Skepticism dimenticato da dio, ma la realtà è che Mirror Reaper era un lavoro anche curiosamente user-friendly, che ha anzi ridefinito il concetto di “accessibilità” in ambito funeral doom (ed è per questo che il plauso critico intorno a questo titolo era prevedibile, ed è stato effettivamente previsto, fin dai tempi della sua pubblicazione). Già se si confrontano le sezioni più apertamente doom metal di Mirror Reaper con quelle dei precedenti Longing e Four Phantoms, che invece flirtavano perfino con lo sludge e con il drone metal, si percepisce distintamente un impatto sonoro decisamente meno estremo; se poi si aggiungono anche le lunghe sezioni in cui il basso rinunciava alla distorsione, optando invece per un timbro pulito che riecheggiava il tono doloroso dello slowcore, si può facilmente intuire quanto i Bell Witch tendessero una mano a un’audience molto meno avvezza alle asperità del genere. A voler essere particolarmente cinici, si potrebbe pure insinuare che un’opera tanto monolitica e priva di spunti sia stata invece interpretata come un capolavoro di disperazione asfissiante anche per via di fattori squisitamente extra-musicali, come la scelta del tronfio artwork di Mariusz Lewandowski in copertina o la (ai tempi) recente scomparsa del loro primo batterista e cantante Adrian Guerra, di cui Mirror Reaper contiene pure alcune tracce vocali – le ultime incise prime della sua morte. Perché nonostante l’alta considerazione che ha di sé, il musicofilo del web medio è tra i profili più ingenui e suggestionabili sulla piazza.

Sei anni dopo quel Mirror Reaper, intervallati solo da una – ovviamente, inutile – collaborazione con gli Aerial Ruin nel 2020, i Bell Witch sono tornati con questo The Clandestine Gate, un altro album mono-traccia (di nuovo di ottantatré minuti) di prevedibilissimo e piatto funeral doom metal. Come sempre, l’intero apparato musicale e concettuale del gruppo è votato a un sentimento di sofferta ma rassegnata malinconia, seppur l’ulteriore alleggerimento dell’estremismo metal dei precedenti lavori (pure contando il già relativamente morigerato Mirror Reaper) rischiari la materia sonora con più frequenti raggi di luce. Il problema è che, al solito, i Bell Witch dispongono solo di una sparuta manciata di mezzi musicali per esprimere la loro poetica: per tutta la sua estensione, The Clandestine Gate si dipana lungo sezioni dalla durata variabile, ognuna delle quali dedicata a un particolare elemento del loro suono. Ci sono le parti dominate dall’organo e dalle tastiere dal sapore ecclesiastico; ci sono quelle in cui remoti cori ieratici sostituiscono il growl di Dylan Desmond, mai in secondo piano come su questo lavoro; ovviamente, ci sono anche le cadenze più propriamente doom metal, con il riff di basso distorto e saturo a rinfrangersi sopra la scansione ossessiva del solito putrido 4/4 di Jesse Shreibman (che, gli va riconosciuto, ogni tanto prova a inserire qualche minima variazione nell’enunciazione metrica del brano); occasionalmente, si lascia spazio pure a qualche sporadico e luminoso lead melodico, elaborato nei registri più alti del basso a sei corde di Desmond per sopperire alla mancanza di una chitarra solista, o semplicemente a delle frasi in clean, che riecheggiano addirittura la chitarra di Alan Sparhawk (Low). E non c’è davvero molto altro, tra i solchi di The Clandestine Gate: tutti questi segmenti, che presi singolarmente si distinguono abbastanza nettamente gli uni dagli altri per materiale melodico, timbrico e per dinamiche adottate, si dipanano per diversi (molti, troppi) minuti con quasi nessun tipo di evoluzione che ne possa giustificare la durata, abusando di tutti i cliché di accumulo di tensione tramite la ripetizione ostinata e la dilatazione estenuante del tempo musicale di cui la musica funeral doom metal, ma anche il post-rock e il drone, è capace. È vero che si parla di un genere che sulla ripetitività e l’ossessività ha basato la propria intera estetica, ma questo non basta a giustificare i Bell Witch: da Stream from the Heavens in avanti, il funeral doom metal non solo ha dimostrato di poter esprimere umori differenti da quello della solita plumbea marcia funebre, ma si è anche rivelato come un materiale sonoro estremamente malleabile, capace di offrire una scrittura più variegata e dinamica e di arricchirsi con sonorità mutuate dalla darkwave neoclassica e dalla musica gotica (Aes degli Skepticism), dalla psichedelia siderale più orrorifica (The Pernicious Enigma degli Esoteric), o anche della grandeur del death metal più tragico (Call of the Wretched Sea degli Ahab). La musica di The Clandestine Gate, invece, naviga nella comfort zone più scontata: una roba del genere non è evocativa, non è struggente, non è ipnotica, è soltanto l’ennesima rottura di coglioni. Non è ben chiaro quanto il fatto che i Bell Witch non siano capaci di concepire altra strategia per veicolare il loro messaggio sia dovuto a una povertà di visione (sono davvero convinti che questo sia il metodo migliore per perseguire i loro obiettivi concettuali) o a una povertà di mezzi (non hanno le capacità per fare altro).

In ogni caso, ai Bell Witch non si può non riconoscere una certa scaltrezza. Ben consci dei limiti della loro proposta, questa volta hanno ben pensato di ammantare un discreto arsenale di riferimenti per giustificare ex post la ripetitività, la prevedibilità e la scarsa varietà della loro musica: è Desmond stesso a offrire, con una certa immodestia, dei parallelismi tra la missione del gruppo e temi come l’eterno ritorno dell’uguale nietzscheano, o il letargico dispiegarsi del cinema di Tarkovskij. Tant’è che The Clandestine Gate è pensato come primo capitolo di una trilogia, intitolata Future’s Shadow, il cui tema fondante è proprio la ciclicità dell’esistenza. Addirittura, nelle intenzioni del duo, l’ultimo atto di quest’opera dovrebbe essere idealmente concatenato al primo, realizzando così un loop inesorabile e idealmente riproducibile in eterno, che dia un nuovo stuolo di significati a tutta l’operazione dei Bell Witch – e, in particolare, a The Clandestine Gate. Tutto molto arguto, ma non ci caschiamo: questo disco è uno spreco di tempo e sono pronto a scommettere che lo saranno anche i prossimi due, a prescindere dai riferimenti altisonanti sciorinati nel press kit

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia