CONTAINER BELLO

ABBIAMO GIÀ UNO DEI DISCHI JAZZ MIGLIORI DELL’ANNO

JASON MORAN – FROM THE DANCEHALL TO THE BATTLEFIELD

n/a

2023

Avant-Garde Jazz

They walked a very long way, saw you, and tagged you forever…

La nascita del jazz viene fatta tipicamente risalire al 1917, cioè l’anno in cui la Original Dixieland Jazz Band pubblicò il suo primo 78 giri Livery Stable Blues. D’altronde, ricercare un “Big Bang” che stabilisca il momento esatto nel quale un genere entra ufficialmente a far parte della storia della musica è un giochino che piace tanto alla stampa musicale; puntualmente, però, queste presunte “rivoluzioni” si rivelano quasi sempre soltanto una feroce semplificazione della complessa rete di avvenimenti storici, culturali e musicali che portano effettivamente all’ascesa di una nuova corrente stilistica. Il caso del jazz, ovviamente, non fa eccezione: anzi, la scelta della data e degli artefici della nascita del jazz è particolarmente mistificatoria, visto che la Original Dixieland Jazz Band era un ensemble di musicisti mediocri il cui contributo all’idioma jazzistico è stato molto meno rilevante rispetto a quello apportato dagli artisti ragtime attivi a cavallo tra Ottocento e Novecento, e perfino meno rilevante di quello apportato da primi compositori di musica colta autenticamente americana come Gottschalk. (Qua in Italia questa narrazione assume pure connotati grotteschi venati di un nazionalismo posticcio, perché Nick La Rocca vantava origini siciliane: non a caso uno dei più agguerriti promotori di questa vulgata è Renzo Arbore, che ha tutto l’interesse di esaltare una qualche “italianità” intrinseca del jazz.)

In ogni caso, questa favoletta è stata raccontata con sufficiente frequenza da aver oscurato la fama di quel groviglio di nomi che hanno contribuito a cementare le fondamenta del jazz prima dell’incisione di Livery Stable Blues, perlomeno presso gli ascoltatori provenienti dal mondo pop e rock – gli storici del jazz, ovviamente, l’hanno invece studiato con molta attenzione; l’unica ovvia eccezione che ha sfondato i confini del recinto degli addetti ai lavori è molto probabilmente il solo Scott Joplin. Tra le varie figure chiave del ragtime, però, quella del violinista e bandleader James Reese Europe svetta in modo particolare: è stato uno dei più importanti esponenti e promotori della musica e della cultura afro-americana di New York agli inizi dello scorso secolo – colui tramite il quale, secondo Gunther Schuller, l’establishment bianco è venuto a conoscenza dello stato dell’arte della musica nera. Durante la prima guerra mondiale divenne tenente del 369esimo reggimento di fanteria che combattè al fianco dell’esercito francese, composto interamente da elementi della comunità nera di Harlem (da cui l’affettuoso soprannome di Harlem Hellfighters): la band di quel reggimento, diretta da lui stesso, giocò un ruolo fondamentale nell’introdurre le forme del ragtime e del proto-jazz americano al pubblico europeo, in particolar modo in Francia. Europe morì il 9 maggio 1919, ucciso dal suo stesso batterista durante una lite per futili motivi: di lui ci rimangono le registrazioni di poco più di una ventina di pezzi, incisi tutti tra il marzo e il maggio di quell’anno, che sono disponibili integralmente su un cd della Memphis Archives edito nel 1996.

Non sorprende quindi che un musicista come Jason Moran, che nella sua carriera pluridecennale si è sempre distinto per un linguaggio pianistico poliglotta che abbraccia l’avant-garde così come il ragtime, lo stride, il blues e il bop, abbia deciso di basare il concept di un suo disco proprio su James Reese Europe. From the Dancehall to the Battlefield è l’occasione per Moran di riflettere sull’impatto avuto da Europe nella percezione e nella considerazione dell’arte afro-americana, ma anche per celebrare la vitalità che traspare dalle sue composizioni – l’umanità delle sue canzoni e delle sue band, nelle stesse parole del press-kit. Soprattutto, però, è un’opportunità per rileggere e inquadrare il lascito artistico e intellettuale di Europe a oltre un secolo di distanza da quando la pulsazione sincopata e futuristica dei suoi brani è apparsa per la prima volta nelle sale da ballo americane, segnando indelebilmente la storia della musica nera. (Se siete particolarmente interessati a conoscere in maggiore dettaglio l’opinione di Moran sull’importanza di James Reese Europe per la comunità afro-americana, potete ascoltare direttamente le sue parole su questo podcast della WNYC.)

Del repertorio degli Harlem Hellfighters, Moran riprende complessivamente una dozzina di brani a firma di diversi autori – si passa dal Russian Rag di George Cobb alle celebri Memphis Blues e St. Louis Blues di W.C. Handy, dal brano tradizionale Flee as a Bird to Your Mountain a composizioni originali di Europe come Ballin the Jack e Clef Club March. Ognuno di questi pezzi viene quindi riletto in chiave squisitamente post-moderna, utilizzando il materiale di partenza come canovaccio per lanciarsi in escursioni verso la contemporaneità e l’avanguardia – il tutto, però, nel rispetto filologico dell’umore e degli intenti che traspaiono dalle esecuzioni originali: perché anche se il lungo excursus solistico di Moran incastonato a metà di Russian Rag può facilmente rimandare al pianismo di Marilyn Crispell, il coloratissimo tema che emerge dalla collisione delle voci di sassofono, tromba, trombone, tuba e clarinetto rimarca ulteriormente la vicinanza a Rachmaninov della versione degli Hellfighters. Anzi, si potrebbe argomentare che From the Dancehall to the Battlefield esalti maggiormente la grandezza e l’attualità della musica di Europe proprio quando il gruppo osa sbilanciarsi maggiormente verso il nuovo, tracciando arditi parallelismi e analogie con il linguaggio jazz più moderno. È quel che accade in Ballin the Jack, che viene riletta dal piano trio di Moran in una maniera così affine alle sue composizioni originali per The Bandwagon che quando il pezzo sfuma nella melodia incalzante di Feed the Fire di Geri Allen (1992), l’orecchio fatica a scorgere il punto di sutura dei due brani; o nella funerea Flee as a Bird to Your Mountain, che da un lato rimarca il ruolo elegiaco che ricopriva nel repertorio di Europe (lui la suonava in onore dei suoi compagni di reggimento caduti in battaglia) e da un lato viene sfruttata come chiave di riflessione sull’importanza dei brani tradizionali nel jazz moderno – tant’è che nella seconda metà il pezzo si increspa progressivamente e si fa strada, commovente, il tema di Ghosts di Albert Ayler edotto dal sax tenore di Brian Settles. O ancora, nella magnifica versione di St. Louis Blues, qui sfilacciata fino a quasi nove minuti di durata in cui si susseguono assoli di sax contralto eretti su folate di tape loop e percussioni sparse, turbinii post-bop, fanfare bandistiche atonali che lasciano il passo infine a una tromba solitaria; oppure nell’altrettanto eccellente Castle House Rag, che sembra elaborare il proprio arrangiamento analizzando volta per volta un singolo elemento della melodia e del ritmo originale con la lente di ingrandimento. È qui che vanno rintracciati i momenti più creativi ed espressivi di tutto il disco, quelli in cui la musica di Moran trova un punto di equilibrio magico tra l’emulazione attenta e rispettosa, l’approccio irrequieto e iconoclasta, e un’emotività profondamente sentita che non sfocia però nel patetismo. 

Lo stesso non si può dire forse per la chiusura, invero un po’ troppo melensa, di For James, pennellata dallo stesso Moran come inno spirituale al personaggio di Europe e portata con scopi quasi evangelici in giro per il mondo: nella versione finita su questo album si sente il tema principale ribadito in coro prima da un pubblico tedesco e poi dalla 369 Experience Band – un gruppo-tributo agli Harlem Hellfighters messo in piedi da studenti afroamericani. C’è anche da dire che forse non sono la persona più indicata per giudicare il significato sentimentale ed emotivo che una figura come quella di James Reese Europe può avere per la comunità afro-americana, e anche per questo la mia opinione sul finale di From the Dancehall to the Battlefield non cambia la considerazione più importante: già dal 1° gennaio, abbiamo il primo disco jazz grosso del 2023. Correte a recuperarlo.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia