SQUID – COWARDS
Sembra che ogni gruppo inglese di rock alternativo sufficientemente letterato, a un certo punto della sua carriera, sia destinato (o peggio, obbligato) a operare un cambio di rotta verso lidi più esplicitamente artistoidi e intellettuali. Coerentemente con un panorama musicale acceleratissimo come quello odierno – dove i trend sorgono e muoiono nell’arco di un paio di stagioni – gli esponenti più in vista della scena di Windmill hanno compiuto questa evoluzione a velocità particolarmente sostenuta; e pure gli Squid, come i vari black midi e Black Country, New Road, sono passati da un’espressione pur obliqua ed evoluta del britpunk a una forma di post-rock artsy e progressivo già al momento del secondo disco. Non si tratta di un male a priori: senza andare troppo lontani nel tempo, i black midi hanno dato il loro meglio proprio in questa nuova veste. Nel caso degli Squid di O Monolith, però, questa supposta “nuova maturità” aveva rappresentato un ingrigimento della loro formula, più che una sua evoluzione. La musica di O Monolith sembrava essere concepita a uso e consumo di quelli che pensano che una strumentazione più estesa, suoni meno spigolosi, vocals meno urlate, atmosfere più diradate, siano di per sé sintomo di una musica più adulta e pertanto più ricca, profonda, nobile. Non è per forza così: se tali orpelli vengono aggiunti artificiosamente, senza che la visione e le idee compositive soggiacenti necessitino di esprimersi per forme più elaborate, il risultato può suonare facilmente stantìo e forzato – specie se tali supposte “forme più elaborate” sono nient’altro che rimasticamenti di stilemi digeriti e risputati in mille salse dall’art rock britannico nell’arco dei decenni. Ovviamente, O Monolith risentiva precisamente di queste criticità.
Rispetto al fallimento del suo predecessore, quest’ultimo Cowards si pone in maniera ambivalente e contraddittoria. Grosso modo, la rotta è ancora una volta tracciata in direzione di un post-rock di squisita ascendenza britannica, che rimugina decenni di rock alternativo dal sapore cameristico e contemplativo: i riferimenti sono sempre gli ultimi Talk Talk, Bark Psychosis, i Radiohead di In Rainbows, i These New Puritans di Field of Reeds – tutti nomi scomodati già per descrivere l’album precedente, insomma. La stessa aggiunta all’organico di un quartetto d’archi (il Ruisi Quartet), a soppiantare i contributi di clarinetto e di sax soprano di O Monolith, sembra dichiarare con ancora più convinzione di voler perseguire quella strada; eppure, almeno per la prima metà di Cowards, gli Squid sembrano aver trovato un modo per adattare la formula dell’esordio alle ambizioni “nobili” di O Monolith, di fatto partorendo una manciata dei brani più riusciti del loro canzoniere. Una scelta dei suoni meno tenue e delicata rispetto al disco precedente conferisce un rinnovato vigore a basso e batteria, che ritrovano il punch di Bright Green Field e rimettono in primo piano l’influsso ritmico del krautrock e del post-rock della scuola di Chicago; la vasta palette timbrica offerta da tastiere, elettronica e chitarra, invece, recupera quella quirkiness che su O Monolith sembrava scomparsa. Lo sviluppo ad arco del singolo di lancio Crispy Skin è emblematico di quanto la musica degli Squid possa essere dinamica e variopinta: per la prima metà il pezzo è trainato dal basso motorik e da una ragnatela di sintetizzatori effettati, siti da qualche parte tra il minimalismo elettronico e le musiche per Super Nintendo; dopo circa due minuti e mezzo la voce di Ollie Judge si impone improvvisamente sulla scena zittendo il resto della strumentazione, soltanto la chitarra e la tastiera a ribadire flebilmente la sua linea vocale. Solo a questo punto il brano può avviarsi verso la sua conclusione: l’interplay jazzato di basso e chitarra, memore del fraseggio di Jim Hall, detta la melodia su cui il resto degli strumenti (tastiere, elettronica, batteria) si addensano progressivamente, in un crescendo che culmina recuperando il battito ritmico propellente della prima metà. Su un pezzo come Building 650 invece gli Squid riescono a far dialogare in maniera altamente non banale l’impianto rock anni Novanta, debitore dei Moonshake e dello strampalato indie rock dei Thinking Fellers Union Local 282, con il contributo del Ruisi Quartet: gli archi si pongono in continuità melodica con basso e chitarra, così esaltandone le parti anziché ottundendone l’impatto. Sulla più oscura Blood on the Boulders, invece, l’intervento del quartetto è volto a risaltare il già concitato climax dissonante di chitarra e basso, applicando tecniche estese a violini e viola per generare ulteriore caos nel momento culmine del pezzo. È un approccio bizzarro che evita di arenarsi sui soliti cliché museali di certo post-rock.
A questi primi tre pezzi, indubbiamente riusciti, fa da contraltare praticamente tutto il resto della tracklist, che declina invece la formula degli Squid in maniera più ovvia, condannando Cowards ad arenarsi sulla stessa mediocrità di O Monolith. Sulla carta, le soluzioni timbriche adottate potrebbero essere ancora più peculiari: il sintetizzatore campiona il suono di un clavicembalo dal sapore barocco, mentre su due brani si aggiunge il flicorno di Chris Dowding. Tuttavia, la scrittura si fa estremamente più statica e monodimensionale, e al contempo il contributo degli ospiti viene appiattito ad ariosi arrangiamenti elementari impiantati sopra brani rock tristemente lineari (cfr. la title track). Quello che accade su Well Met (Fingers Through the Fence) è particolarmente frustrante, e rappresenta appieno quanto di sbagliato ci sia nell’approccio compositivo degli Squid. I primi tre minuti e mezzo sono occupati da un innocuo numero di rock elettronico – con melodie vocali anche piuttosto melense – che si evolve per microvariazioni impercettibili alla maniera del crescendo-core più muffoso; a un certo punto, però, interviene ex abrupto il clavicembalo, cimentandosi in una curiosa figura ostinata. È un’idea inattesa e imprevista, e sembra preludere a uno sviluppo del brano decisamente meno scontato; ma ogni speranza viene disattesa. Il clavicembalo ripete in loop la sua parte fino alla fine del brano (quindi, per altri quattro minuti e mezzo), con minime variazioni di tema e tempo che arrivano soltanto dopo tre minuti: così, ciò che all’inizio appare come una creativa invenzione timbrica e melodica spreca tutto il suo potenziale, finendo anzi per urtare la pazienza dell’ascoltatore. Oltretutto, se non fosse per l’assolo di Dowding che cerca di improvvisarsi novello Mongezi Feza, ad accompagnare il clavicembalo ci sarebbe soltanto un lento crescendo dalle velleità orchestrali e dalla chiara finalità catartica. È esattamente la summa di quei cliché che gli stessi Squid sono bravi ad eludere nei primi tre brani di Cowards.
A questa critica farebbe parziale eccezione Showtime!, che per i primi minuti sembra collocarsi nel solco di quei pezzi giocondi e proteiformi in stile Crispy Skin; peccato che la conclusione sia affidata, pure qua, al solito ostinato minimalista che cresce di intensità e volume come da manuale crescendo-core. L’impressione è che gli Squid abbiano esaurito ogni idea non prevedibile nel primo quarto d’ora del disco (per intenderci, il resto del materiale arriva a toccare la mezz’ora di durata – circa il doppio del minutaggio). Sinceramente, un po’ troppo poco per continuare a nutrire speranze di ripresa in un gruppo che abbiamo rivestito di aspettative qualche anno fa. Peccato.