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Sei dischi da sei-e-mezzo recensiti in sei righe e mezzo

In questi lidi, quando esce un disco molto valido o controverso non manchiamo mai di rovesciare fiumi di parole a riguardo; ma che dire dell’oceano di album sullo sfondo? Di tanto in tanto risulta quindi utile allargare lo sguardo: a volte la coda dell’occhio cattura le immagini più interessanti.
Recuperiamo questo format satanico dal nostro 2018, aggiornato agli ultimi lavori con cui stiamo entrando in contatto. Non perdete tempo.


Henning Christiansen – to look inside music (The Henning Christiansen Archive, 2022)

Non ho argomentazioni molto forti sul perché dovreste spendere due ore e mezza tra queste memorie polverose piuttosto che dedicare lo stesso tempo a riascoltare Unjust Malaise; però, mettiamo che abbiate riascoltato da poco Unjust Malaise, allora potete infilarvi qui per metà pomeriggio ed aggirarvi tra composizioni minimaliste che giocano con gli spazi vuoti, tour de force di stramberie vocali con deliqui su orchestre dalle ombre lunghe, cerimonie di metalli vibranti. La quintessenza della pubblicazione d’archivio, con un’austerità fuori dal tempo e una sperimentazione tanto cerebrale quanto sincera, consigliata a chiunque unisca l’amore per i risvolti del suono a del sano masochismo.

DJ Y? – 100% DJ Y (Tekno Sucks, 2022)

 “Handle the presha!” incoraggia un sample in piena caricanza a metà EP. Dalle mie parti la prescia indica la fretta, la smania di fare le cose, e DJ Y? sembra handlarla molto bene. Battito gabber in prima linea, piantato in una selva di basse frequenze malevole che lo rendono melmoso senza togliere spinta ritmica, insieme a una produzione acida che non ha bisogno di ubriacature di 808 distorti per rendersi corrosiva: praticamente un sogno bagnato. Di sudore. C’è da versarne copiosamente, a partire dal rave a trazione 8-bit di una I Love You che rivitalizza i Crystal Castles fino alla fascinazione subdola degli echi 2-step che risuonano tra i bassi plastici di Tribe of One. Rimanete idratatə e sparate ad alto volume.

Hakushi Hasegawa – Air Ni Ni (Music Mine, 2019)

Non so da dove derivi questo patrimonio culturale condiviso, ma per qualche ragione sappiamo tuttə che nelle gare di resistenza fare “la lepre”, partire a razzo, poi quasi sempre si rivela controproducente. Ecco perché si può rimanere spiazzatə da un disco che ti sbatte subito sul tavolo un frullìo gitchato che shakera la compostezza del cantautorato giapponese di qualche decennio fa con svisate breakcore dagli accenti jazzati; ci si fomenta, applausi, chi se lo aspettava? Certo, il cantautorato giapponese non è che sia la nostra passione e l’ultimo disco breakcore l’abbiamo messo su un po’ di tempo fa; ma anche se si arriva trafelatə al traguardo,  per un tratto si vive il puro entusiasmo di uno scatto fotonico.  

Carmel Smickersgill – We Get What We Get & We Don’t Get Upset (PRAH, 2022)

Dov’è il senso? Tutto il tempo col naso all’insù a cercare un segno dal cielo, l’esperienza della svolta, con i piedi incastrati nelle sabbie mobili dei giudizi aggregati quando a un quarto d’ora di distanza c’è un alberello, ti puoi sedere lì sotto in compagnia delle foglie che danzano e ti disegnano sopra la luce e anche le ombre, flussi di ritmi appaiono intorno appena chiudi gli occhi, brezze di voci che sembrano venire da chissà dove e le melodie, davvero, un tepore di melodie che ti scorre nel sangue. Ma vedi, è sempre lì l’alberello, chissà quanto ci ha messo per diventare così, ti sembrava banale la sua presenza e invece ora ti sembra vivo davvero. Qual era la domanda?

Clara! – XXX Tape (Editions Gravats, 2022)

Del doman non c’è certezza, ma c’è sempre la ragionevole aspettativa che Clara! dropperà un altro mix di reggaeton tiratissimo e caleidoscopico. Creatività anarchica, cadenze rap e orgoglio femminista sono i supporti su cui scorre il nastro. Il suo stile cattura tante tendenze dell’elettronica dentro e fuori dal club, macinando insieme produzioni sensualmente algide e danze ribollenti, sui cui ritmi si fondono voci femminili dal potere camaleontico. Miriadi di idee, pezzi e spunti fungono quasi da strumento di diffrazione delle possibilità di questa musica, tenute insieme da un flow incrollabile che trascina di forza dentro al barrio. “Tengo mi proprio mambo!”, è proprio vero.

DHS – From Outerspace (not on label, 1997)

Capita di riprendere delle uscite sotterranee scoperte con un certo entusiasmo in passato e realizzare che a distanza di anni, con molti più ascolti alle spalle, la loro dimensione nel nostro immaginario si è ridotta. Percorso di crescita, ok, ma anche: tristezza. From Outerspace ha fatto questo tragitto, è un reperto di quei tardi anni ’90 in cui si esploravano le possibilità del sampling non come ingrediente ma come ricetta per fare musica; qui siamo in zona Amon Tobin e The Orb che si fanno un rewatch di Ai Confini della Realtà tra uno zapping di frequenze radio e l’altro. Un po’ di tenera ingenuità, ma anche tante minuzie preziose e qualche stramberia. Soprattutto, ci si diverte parecchio. 

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto