IMPERIAL TRIUMPHANT – GOLDSTAR
Sul finale della recensione di Spirit of Ecstasy, il nostro Emanuele aveva fatto notare come al di là dei concept seriosi e delle fascinazioni intellettualoidi, gli Imperial Triumphant fossero – come un po’ tutti noi metallari puri dal cuore puro – degli amabili cazzoni. D’altronde, il death metal ultratecnico del trio newyorkese, con le sue influenze provenienti da jazz, musica classica e con una spiccata riverenza verso l’Art Déco, a una certa lasciava cadere la maschera della serietà e ti trascinava su delle esilaranti montagne russe di riff e collage compositivi.
Goldstar, il nuovo full-length della band, pubblicato come sempre da Century Media e con il solito Colin Marston come produttore, non fa eccezione. Già solo Eye of Mars, la prima delle nove tracce che compongono il disco, meriterebbe una disamina critica troppo ampia per lo spazio di questa recensione: cori tremolanti, una citazione esplicita al secondo movimento della Musica Ricercata di Ligeti e una a Holst resa evidente dal titolo, una interpolazione di un discorso di Marshall McLuhan sulla sua opera più famosa… Goldstar è da subito notabile a causa dell’abbandono dell’opulenza timbrica che segnava i dischi precedenti del gruppo in favore di una formula da power trio più diretta e “accessibile”, per citare il presskit dell’album. Che poi, accessibile un cazzo: ascoltate come Gomorrah Nouveaux scombina il ¾ sincopato della propria introduzione, aggiungendo di volta battute che zoppicano come un’abominevole e deforme creatura del sottosuolo; o come Hotel Sphinx si apra con una versione in stile Emperor della Sarabanda di Handel – il secondo riferimento a Kubrick in questo disco – prima di essere risucchiata dal tema del compositore tedesco, questa volta riproposto in una versione per sola tastiera che non sfigurerebbe dentro a un album di Wendy Carlos. La tremenda marcia trionfale della band è quindi capace di riprendere tra tremolo e blast beat sul finale in uno dei chiari highlight gi Goldstar.
Così, tra la sfuriata grindcore di NEWYORKCITY e lo sberleffo in stile barbershop quartet della brevissima title track, arriviamo all’ultimo terzo del disco. Qui le cose si fanno davvero succulente: Rot Moderne, ad esempio, continua imperterrita in un fraseggio atonale singhiozzante prima di precipitare in un half-tempo satanico dove il rombo della doppia cassa e l’effettistica del basso riescono infine a evocare la “sinfonia urbana” di un ingorgo a Manhattan. Pleasuredome, invece, si avvale della collaborazione di due mostri sacri come Thomas Haake dei Meshuggah e Dave Lombardo degli Slayer: se il primo contribuisce al brano con uno spoken word che riporta alla mente i momenti di respiro di Catch 33, Lombardo è invece capace di congiurare un’incredibile sezione ritmica dall’accento smaccatamente latin nella seconda parte del brano, sulla quale il basso è libero di improvvisare prima che l’assalto sonico del trio si avventi su di essa per cannibalizzarla. Sembra di vedere Carmen Miranda ballare al Copacabana mentre la sua pelle si scioglie come in un film di Carpenter: una contrapposizione che, seppur raccapricciante, non può far distogliere lo sguardo per nessun motivo al mondo. Industry of Misery, infine, chiude le danze in maniera magistrale: da un’introduzione ariosa con motivi dodecafonici di piano e chitarra si passa per una catastrofe dove gli Imperial Triumphant sembrano equiparare il collasso dell’economia mondiale (riferimento quantomai appropriato, visti i tempi) all’auspicabile rovesciamento del despota divino e all’inizio di una nuova era, prima di chiudere tutto in una sconvolgente versione psych-death del celebre riff di I Want You (She’s So Heavy) dei Beatles.
Ecco, se persino quest’ultima indicazione non dovesse bastarvi, a me sembra proprio che gli Imperial Triumphant si stiano seriamente divertendo con il concept alla base della loro folgorante carriera: quasi nessuno dei riferimenti, musicali o no, che infesta Goldstar appartiene agli anni Venti a cui la band ripete pedissequamente di rifarsi.
Forse sarebbe opportuno trovare la chiave di lettura di questo album a partire da quel “the medium is the message” che apre il disco: come Dos Passos e la sua “polifonia della pagina” di Manhattan Transfer, è il continuo riassestamento delle coordinate e dei riferimenti che fa di Goldstar un album di comprensione immediatamente più accessibile rispetto ai precedenti sforzi della band. L’insieme di citazioni, storture e metafore della scrittura dei brani non assume più connotati alieni (come si poteva intuire in Chernobyl Blues, ad esempio), ma arricchisce e accumula avidamente al suo interno ogni tipo di linguaggio per riflettere verso di noi un’immagine frammentata, distorta e inquietante di New York e della sua storia. È il medium, il modo in cui esso viene architettato e costruito, che produce il messaggio fondamentale da veicolare; e le scelte del gruppo sembrano tutte voler puntare verso il collasso, la decadenza, la caduta degli idoli. Inutile dire che ci siamo dentro fino al collo: Goldstar ci parla perché parla anche di noi. E riuscire a parlare dell’attuale usando le divinità egizie, l’acciaio e il vetro non è mica roba da poco. Chissà cosa ci riserveranno gli Imperial Triumphant, adesso che hanno buttato giù la maschera.