JON IRABAGON – SERVER FARM
Anche se forse non ve ne siete accorti, il nome di Jon Irabagon è apparso già diverse volte sulle nostre pagine – come quello di tanti altri personaggi appartenenti al mondo del jazz newyorkese contemporaneo, del resto. La sua carriera è perlopiù associata alla decennale militanza come sassofonista nei Mostly Other People Do the Killing, uno degli ensemble più iconoclasti del panorama jazzistico del nuovo millennio, cui avevamo dedicato un intero articolo già nella nostra vecchia incarnazione come Björko Dio: il tema, all’epoca, era la loro sfrontatamente fedele riproposizione di Kind of Blue di Miles Davis. Nel recente passato, però, Irabagon si è distanziato da quel post-modernismo beffardo, diventando incidentalmente uno dei musicisti più impiegati da molti dei più intellettuali esponenti dell’avant-jazz dell’East Coast – da Dave Douglas a Mary Halvorson. Pertanto, ha partecipato a diversi dischi che abbiamo amato, come A Pouting Grimace di Matt Mitchell o, soltanto l’anno scorso, al bellissimo Breaking Stretch di Patricia Brennan. Tuttavia, non ci siamo mai occupati della sua attività da leader, che pure lo occupa abbastanza da permettergli di nutrire regolarmente la propria discografia con uno spropositato quantitativo di uscite. Giusto per gradire, soltanto l’anno scorso ha pubblicato cinque album: a gennaio uno per sax soprillo solo e uno per quintetto; a luglio due per due diversi quartetti e uno in duo. Vista una tale prolificità, non sorprende che per battezzare il 2025 ci abbia messo soltanto due mesi – questo Server Farm è uscito a febbraio – ma il risultato è uno dei lavori più interessanti e curiosi del catalogo di Irabagon.
La gimmick di partenza, parliamoci chiaro, è piuttosto scema – talmente scema che credo meriti una critica a sé. Il concepimento di Server Farm si è articolato in tre fasi: dapprima, Irabagon ha scelto nove musicisti con cui formare l’ensemble per Server Farm; ne ha quindi studiato approfonditamente la produzione artistica; infine, ha scritto delle composizioni inedite utilizzando come ispirazione materiale melodico e tecniche provenienti direttamente dalle incisioni ascoltate. L’idea – lo spiega Irabagon stesso in un’intervista del sempre eccellente PostGenre – è quella di mimare il meccanismo di apprendimento delle reti neurali, scrivendo una musica ricamata addosso agli esecutori in una maniera paragonabile a quanto potrebbe fare un’intelligenza artificiale; ma Irabagon è anche intenzionato a dimostrare quanto l’esperienza e l’emotività rendano inestimabile l’apporto di un performer umano rispetto a quello di una macchina, pur dotata di un’efficienza e una potenza di calcolo incomparabilmente superiori. Per adattare adeguatamente una tale premessa al disco, Irabagon avrebbe quindi a disposizione due strade. La prima è quella di prendere come modello le intelligenze artificiali più rudimentali, le cui lacune nell’aspetto creativo sono lampanti e in cui i dati utilizzati al fine di elaborare nuova musica sono ancora ben discernibili durante l’ascolto. Per farlo, sarebbe quindi necessario che le partiture di Irabagon fossero segmentate, vagamente incoerenti nel loro fluire, che incorporassero in maniera dissonante le frasi e i temi presi in prestito all’interno del materiale originale, magari arrivando anche al polistilismo straniante e sfacciatamente iper-citazionista delle opere di Alfred Schnittke, Bernd Alois Zimmermann, o John Zorn: insomma, sarebbe necessario che le strategie compositive di Irabagon ricalcassero non soltanto le intenzioni, ma anche gli attuali limiti di molte AI disponibili al pubblico. La musica di Server Farm però scorre liscia, armonizzando con lucidità i contributi melodici e timbrici delle varie voci della band, dando pure un ruolo di primo piano alla componente improvvisativa che affranca ulteriormente il risultato finale dai modelli presi come riferimento, quindi è evidente che non si tratti della strada perseguita da Irabagon.
La seconda possibilità sarebbe invece quella di emulare intelligenze artificiali più sofisticate, il cui output è più prossimo a quello degli umani. Ma elaborare organicamente le proprie conoscenze sulla base dell’esperienza, costruendo e variando le informazioni in possesso al fine di produrne di nuove, è esattamente il modo in cui gli esseri umani realizzano musica, ed è proprio ciò che quelle stesse intelligenze artificiali simulano fedelmente. Se Irabagon vuole imitare una macchina che imita un uomo e finisce per suonare precisamente come quest’ultimo, senza che in questa catena di trasmissione si perda (o si aggiunga, o si trasformi) alcun tipo di informazione, possiamo davvero dire che Server Farm necessitasse di tutto questo ingombrante apparato concettuale? O, ancora, possiamo dire che la traduzione di tali premesse da idea in realtà sia efficace e ben ravvisabile nella musica del disco?
Tuttavia, l’eterogenesi dei fini è una realtà tangibile: il motivo per cui nonostante tutto ci ritroviamo a consigliarvi l’ascolto di Server Farm è che, ignorando il concept francamente inutile, ciò che arriva alle orecchie è comunque uno dei sound più entusiasmanti che il jazz di New York sia capace di produrre di questi tempi. Il curriculum dei musicisti chiamati a raccolta per l’occasione – vi risparmio la sfilza infinita di nomi, ma potete comunque leggerla qua – abbraccia uno spettro di sonorità vastissimo che comprende fusion, big band di frontiera, post-bop, free jazz, improvvisazione radicale, fino anche alla musica accademica contemporanea. E, infatti, durante l’ascolto di Server Farm emergono frattaglie del background artistico di tutti i musicisti coinvolti, che siano le complesse parti a metà tra scrittura e improvvisazione dei Phalanx Ambassadors (Matt Mitchell), gli arditi inserti di live electronics del quintetto di Peter Evans, gli esperimenti a cavallo tra jazz e rock di Wendy Eisenberg e degli Starebaby di Dan Weiss, o l’esperienza nell’International Contemporary Ensemble del percussionista Levy Lorenzo. Ma come accennavamo poco sopra, Irabagon ha anche un indubbio talento nel plasmare e saldare con naturalezza tutte queste diverse esperienze, tant’è che lo sviluppo dei brani suona infine consequenziale e sorprendentemente omogeneo nonostante le mille tendenze centrifughe che ne costituiscono l’essenza.
Tuttavia, nel suo complesso, Server Farm sembra un’antologia di cinque brani presi da cinque dischi differenti – e forse è inevitabile, vista la quantità di spunti sonori che i nove compagni offrono al leader. L’iniziale Colocation esordisce con un assolo di kulintang prima di esplodere in un propellente jazz elettrico che porta inconfondibile il marchio di Bitches Brew e dei suoi eredi: il ribollente sostegno ritmico dato dal basso elettrico di Chris Lightcap e da quello acustico di Michael Formanek pare citare esplicitamente il duo Harvey Brooks/Dave Holland, mentre il suono acido e l’eloquio torrenziale del Fender Rhodes di Matt Mitchell richiamano evidentemente Joe Zawinul. Routers è invece un numero più sghembo e giocondo, che si svolge sovrapponendo progressivamente metri fratturati e ritmi sfasati di vibrafono, batteria, bassi e tastiere; l’assolo di sassofono tenore di Irabagon che detta la linea melodica è stato inciso soltanto alla fine delle registrazioni degli altri musicisti, e quindi editato in fase di post-produzione tagliando, cucendo, cambiando il tempo d’esecuzione, trasponendo e rivoltando le frasi, aggiungendo effetti con il pedale. L’asimmetria che si crea tra il sax che ascolta e interagisce con il brulicare di voci strumentali sottostante e il resto della strumentazione che invece va avanti imperterrito ignorando il suo assolo ammanta il brano di una luce ulteriormente bizzarra. Ancora, Singularities è una cornucopia orchestrale per piccola big band avant-jazz. All’inizio, l’intero decimino abbozza qualche frase all’unisono per pochi secondi, poi si interrompe bruscamente, ci riprova e di nuovo si ferma; lo sviluppo diviene quindi più sfilacciato, con continui ribaltamenti di gerarchie all’interno del gruppo e scambi del ruolo solista. È il suono di una band che si sgretola con il passare dei minuti, dapprima suonando insieme in armonia per poi perdere lentamente coesione, mentre i singoli elementi si distaccano dall’ordine precostituito e acquisiscono una propria autonomia: più che la simulazione di un jazz composto da IA, sembra la narrazione di una società che sta per collassare sotto il peso dell’alienazione portata da tutte queste tecnologie a propria disposizione.
Da qui in avanti, Server Farm sembra scivolare inesorabilmente in un clima di tensione sempre più tetro e opprimente, come se il jazz umano della prima metà dell’album venisse progressivamente soggiogato e trasfigurato dall’intervento tecnologico. Prima, Graceful Exit si assesta su un’obliqua ballata che avrebbe il gusto leggiadro delle melodie di Duke Ellington, se non fosse per lo strisciante nervosismo – cui contribuiscono gli sfarfallii di live electronics, il vamping dissonante del pianoforte di Mitchell e la dolorosa parte di basso eseguita da Formanek con l’archetto – che si impone con il passare dei minuti. Infine, si arriva ai quindici minuti di Spy che chiudono il disco, che segnano anche il vertice dell’instabilità e dell’angoscia espresse da tutto Server Farm. È il momento in cui l’elettronica prende definitivamente il sopravvento, dominando anche l’effettistica che plasma il tono del sax di Irabagon: soltanto un ossessivo battito di basso elettrico arpiona il ritmo del pezzo, mentre l’interplay disconnesso di tastiere, chitarre elettriche distorte, violino, fiati e percussioni realizza un suono distopico e inquietante. Su tale marasma strumentale si erge la voce della violinista Mazz Swift, che recita una poesia scritta da Irabagon durante la pandemia. La sua voce non è bellissima e la recitazione è sgraziata, stonando a più riprese sul finale; ma proprio questa incertezza si sposa perfettamente con il senso di tragedia incombente che traspare dalla musica prodotta dal gruppo. Nonostante Irabagon nelle sue interviste appaia molto possibilista e aperto sulle potenzialità delle tecnologie nell’ambito musicale, le sue composizioni sembrano permeate di un profondo senso di sfiducia e rassegnazione.
Di fronte a soluzioni musicali tanto ricche e variopinte, alla luce di una portata emotiva così intensa, la debolezza del concept alla base di Server Farm viene presto archiviata e derubricata in secondo piano. Ciò che rimane davvero è un’esperienza di ascolto tra i più spettacolari che la scena avant-jazz newyorkese ci abbia regalato in questi ultimi anni.