BILLY WOODS – GOLLIWOG
Tecnicamente l’ultimo disco solista di billy woods risale al 2022, ma sarebbe sciocco parlare in questi termini. Le sue collaborazioni – tanto il progetto Armand Hammer quanto i lavori con Moor Mother, Kenny Segal e Messiah Muzik – mantengono la stessa linea espressiva, le stesse atmosfere e la stessa cura; contando questi, gli album pubblicati nell’ultimo decennio salgono a 15. Non è dunque strano avere l’impressione che ci sia sempre un nuovo disco del rapper newyorkese di cui parlare. A rendere la sensazione ancora più forte, ognuno di essi è in un modo o nell’altro entrato nelle grazie della critica e di una fanbase alternativa piuttosto incline a mitizzare ogni sua nuova uscita, facendo diventare queste praticamente onnipresenti in gran parte delle classifiche di fine anno italiane e internazionali. Per la quantità di monnezza che viene esaltata nella musica hip hop, bisognerebbe forse ringraziare che un lyricist effettivamente molto bravo, un artista capace di andare per la sua strada rifuggendo compromessi e scorciatoie, stia avendo il successo che merita almeno tra gli addetti ai lavori. Quando però si va oltre la dozzina di progetti tutto sommato simili tra loro diventa impossibile per critici puntigliosi quali siamo non porci qualche domanda, sia su billy woods che sul panorama che lo ha accolto così a braccia aperte.
Dando per assodato che woods sa scrivere, e che la gente di cui si circonda sa campionare e tirar su dei bei beat; confermando il fatto che lui certe cose non le vuole fare e non le farà mai; prendendo infine per buona anche la narrativa secondo cui un hip hop più cinico e maturo è sempre ben accetto, quantomeno per controbilanciare la perenne deriva edonistica del mainstream: quanti altri dischi dovrà tirare fuori billy woods prima che pubblico e critica osino dare un feedback consistente all’artista, spingendolo a imboccare nuove direzioni? Da persona che pensa che il ruolo dell’arte sia in larga parte stupire, mostrare l’inaspettato e dar forma a ciò che da soli non potremmo immaginare, devo dire che la situazione attorno a billy woods sta diventando quasi grottesca. Si è arrivati a un punto in cui le recensioni, almeno quelle in cui chi scrive dimostra di avere una minima idea del panorama musicale moderno, iniziano tutte con tono titubante, quasi fossero sul punto di dire “oh, è il quindicesimo disco di hip hop scorbutico e scuro, vogliamo dare una scossa alla baracca?”. Non lo fanno mai. Preferiscono ignorare il gigantesco elefante nella stanza, limitandosi ai soliti discorsi sui soliti temi: e le invettive ciniche contro la società americana, e le elucubrazioni di un animo inquieto, e la battaglia interiore di un artista – che ormai fa sembrare la guerra dei cent’anni un battito di ciglia.
Questo perché come al solito, prendendolo fuori contesto, GOLLIWOG non è un brutto disco: è quello a cui woods ci ha abituati, un hip hop dove i beat intesi come parte percussiva diventano quasi inesistenti, e che vive invece di impasti sonori dal sapore di cenere e fango. C’è la matericità delle linee di basso, il gracchiare di campionamenti come carillon inceppati, il rimbombare di frasi strappate da comizi politici e vecchi film, trapiantate poi in un terreno sonoro arido, quasi a voler fiaccare l’impeto delle loro parole. Il solito billy woods. Testi arguti, una direzione artistica piuttosto puntuale (e ci mancherebbe, è sempre la stessa), eccetera eccetera. Ora, nonostante molti musicisti sembrino dimenticarlo, una volta imparata a fare una cosa, poi quella cosa la si sa fare. E quindi se uno la rifà dopo sei mesi la sa ancora fare. Bisogna andare oltre. Beat hip hop decenti si sfornano abbastanza in scioltezza, specie se non ruotano attorno alla ricerca di melodie vincenti o di hook irresistibili. Come già ha ampiamente dimostrato, di dischi decenti come GOLLIWOG billy woods può farne anche due all’anno. Non ha senso accontentarsi, non è ammissibile fargliela passare così liscia. Data la libertà artistica che si è conquistato, di strade percorribili ce ne sarebbero a bizzeffe: potrebbe triturare ulteriormente la forma canzone, spingendosi più in là di quanto aveva fatto in Church, e creare lavori in cui il legame con l’hip hop diventa labile; potrebbe al contrario catalizzare il suo pessimismo a creare una musica incendiaria, un hip hop che flirta con punk, metal, industrial. Potrebbe, da buon artista, tirare fuori cose che io neanche riesco a pensare. Invece da ormai dieci anni ha deciso di non dare svolte significative alla maniera in cui fa musica. È possibile? O meglio, è lecito?





