HORSEGIRL – PHONETICS ON AND ON
Le Horsegirl sono uno di quei gruppi rock che fanno esattamente quello che dicono di fare, senza girarci troppo attorno e senza darsi troppe arie. D’altronde il loro debutto Versions of Modern Performance era stato pubblicato quando due componenti del trio erano appena entrate all’università, e l’altra stava finendo il liceo: è difficile chiedere a una band di teenager che ha appena provato ad alzare la testa dal terreno qualcosa di diverso dalla più totale onestà. Versions… era un album di alt-rock sgraziato e irriverente, che non aveva problemi a schizzare in tutte le direzioni, a non curarsi troppo di smussare gli angoli; è il messaggio che conta, il cuore che si mette nelle prime cose.
Tre anni dopo, il gruppo è tornato in studio. Questa volta in cabina di regia non c’è il nume tutelare di John Agnello, ma Cate Le Bon, che negli ultimi tempi ha fatto da producer ad artisti molto differenti tra di loro, come gli Wilco, St. Vincent e Devendra Banhart. Il risultato è innegabilmente diverso dal suono ruvido di Versions…, che a volte ricordava le storture del secondo J Mascis: le chitarre si sono fatte più jangly, i ritmi meno ansiosi, qualche volta compare un violino stonato qua e là sullo sfondo. Phonetics On and On, però, non deve essere visto come un addomesticamento delle tendenze più slacker del trio, anzi: appare evidente come il pastiche compositivo e sonoro delle Horsegirl continui a pescare a piene mani dall’alt rock delle college radio. Le voci di Penelope Lowenstein e Nora Cheng richiamano continuamente gli Stereolab di Laetitia Sadier e Mary Hansen, e sono innegabili gli omaggi tributati a Jonathan Richman e soci (Where’d You Go?), ai Pavement (Rock City), a qualsiasi altra band con una chitarra che abbia girato gli States in un furgoncino lurido tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.
Phonetics On and On è un disco che, anche nel suo estremo citazionismo, regala comunque qualche emozione. La chitarra che risponde al cantato di Julie, ad esempio, potrebbe esplodere in un solo da un momento all’altro, ma non lo fa mai: è una conversazione, e come tale si può concedere giusto qualche istante prima che l’altro interlocutore torni a parlare. Il già citato violino sghembo nel soffuso motorik di 2468 rende ancor più squisitamente goffo un brano che nella sua semplicità pare concepito dalle Shaggs; e il dénouement concettuale – per quanto semplice – di Information Content («all you got’s ahoo ahoo ahoo / ‘cause all I give’s ahoo ahoo ahoo») dimostra la voglia di giocare con il concetto di testo, di renderlo una componente sonora che si perde o si frappone agli altri strumenti.L’unico, ma gigantesco problema di Phonetics On and On sembra essere, quindi, la mancanza di un vero e proprio colpo di genio che spazzi via il senso di déjà écouté che si ripropone continuamente attraverso tutti i brani del disco. Abbiamo detto all’inizio di questo pezzo che è il messaggio a essere importante: ma qui, al secondo disco, si inizia ad avere il timore che l’unico messaggio che vogliono trasmettere le Horsegirl sia quello di non avere un messaggio. E se una scelta del genere può essere vista come onesta, condivisibile, giusta, rimane l’amaro in bocca di chi si aspettava qualcosa di più da delle giovani donne così promettenti e che tengono così tanto a quello che fanno.