DARJA KAZIMIRA & ZURA MAKHARADZE – MINOTAUR – ANANKE
È un po’ intricato raccontare la velleità musicale e sciamanica di Darja-Kazimira Zimina senza riferirsi direttamente alle sue parole o a quelle delle sue agenzie, che comunque trasmettono una certa vaghezza di fondo del progetto, parte integrante della sua produzione sonora. Ma ci possiamo provare.
Zimina, il cui principale progetto musicale porta il suo nome di battesimo, Darja Kazimira, è una polistrumentista tormentata e sanguigna di origini lettoni-ucraine. Negli ultimi anni di residenza a Tbilisi si è accompagnata a Zura Makharadze, un percussionista e musicista sperimentale georgiano specializzato nella dark ambient a tinte ritualistiche, che con Zimina ha raccolto l’opportunità di emergere in tutta la sua creatività. Lavorano insieme dal 2022, anno in cui Darja Kazimira è approdata sulla meritoria Cycles of Thought e plausibilmente in terra georgiana, e con il ritmo di un’uscita all’anno hanno prodotto quelli che Zimina chiama cicli improvvisativi, album di semi-free improvisation a capo di una narrativa e una visione comune. A traino del duo è la polistrumentista est-europea, che da oramai un decennio tiene la barra a dritta su una rotta di svisceramento del mito e variegata catabasi con svariati album incisi – Death of the Bull, uscito nel 2019 per Aurora Borealis, il più brillante.
Minotaur – Ananke è ad oggi il filamento più vibrante del groviglio spirituale annodato dalle pulsioni di Darja Kazimira. Gli ingredienti alla base del ciclo improvvisativo sono centinaia, così tanti che la costruzione di una sound poetry massimalista e corpulenta appare inevitabile; ma è comunque possibile individuare tre tronconi principali. In primo luogo, il laboratorio di strumenti messo in campo da Zimina e Makharadze, una massa di decine e decine di timbri a servizio del soundscape assolutamente saccheggiati dalle più disparate tradizioni popolari (tre esempi dal mazzo: il kemence ottomano, il kkwaenggwari coreano, il kangling tibetano). È chiaro tanto dalle interviste quanto dal materiale che passa in cuffia che l’obiettivo del duo è quello di esplorare i suoni tradizionali e le loro interazioni impossibili per far emergere quell’inconscio collettivo dalla Pangea di cui abbiamo già parlato e che può fremere ai suoi massimi nelle poche ombre gettate dagli stridii e dall’interplay massiccio dei vari strumenti.
In seconda, l’accento marcato alle vocalizzazioni turpi e profonde del duo, che aggancia l’anima in ogni sua declinazione. È una cosa che innanzitutto avviene nella sua versione pseudo-corale e ariosa (e.g. The desire to die blooms in me like a daily spring and it’s beautiful) che siede a metà strada tra le arie più intense della musica gotica del secolo scorso e certi momenti di panico dell’opera contemporanea più oscura (vedi Sweet Land o la Poppaea di Hersch). A centro album, però, il ruolo della voce si trasforma in qualcosa di più intenso e sconvolgente. Gli strilli e i grugniti di I have devoured the heads… e lo speaking-in-tongues dell’immensa Every wall of my labyrinth is a door to your house per riferimenti possono solo guardare all’avanguardia di Diamanda Galás o, più recentemente, alla Lingua Ignota dei suoi pezzi più duri. Ma questa commistione con il soundfont ancestrale del ciclo improvvisativo strumentale genera delle sensazioni che trovano il loro spazio privilegiato nell’intestino: una volta aperte le possibilità a questo tipo di musica, l’esperienza è decisamente horror, violenta, primordiale.
E arriviamo quindi all’ultimo troncone di Minotaur – Ananke, la storia rigenerata del minotauro di Cnosso, deuteragonista di un mito che in certe frange della psicanalisi affonda le sue radici nella solita tensione lacerante tra natura e cultura, apollineo e dionisiaco, es e super-io. È chiaro che per non mancare di rispetto a una bestia del genere il duo doveva trovare un modo particolare di dragarla dall’abisso del mito: l’improvvisazione senza compromessi, le urla, il tentativo con ogni strumento dell’armamentario dell’etnomusicologo, le lingue senza componenti semantiche, la convergenza su un unico tema para-compositivo che va a soffermarsi in ultima istanza su un insieme di concetti molto preciso. Fuoco, carne, sangue, caos, e chi si è visto si è visto, in un chiaro revanscismo del reame ctonio.
Minotaur – Ananke è un disco che può passare sordo a chi non è disposto a darsi in mano a questo tipo di operazione – come tutto ciò che è pesante sul lato dell’improvvisazione e dell’avanguardia. Per chi ha voglia di dismettere i panni civili e tornare a celebrare i propri istinti più primitivi, invece, c’è poco da fare: questa è una delle strade più sincere, imponenti, e valide da prendere in questo periodo storico.





