CONTAINER BELLO

PATRICIA BRENNAN HA FATTO IL BIS

PATRICIA BRENNAN – OF THE NEAR AND FAR

Pyroclastic

2025

Avant-Jazz

8.5

Mentre scrivo questa recensione sto meditando sulla mia esperienza di gioco in Outer Wilds, che ho finito per la prima volta qualche giorno fa (arrivo tardi). L’atmosfera è dunque adatta per continuare a parlare di spazio, da sempre un mio pallino, e l’ultimo disco di Patricia Brennan, pubblicato venerdì scorso, cade come il cacio sui maccheroni all’interno di questo fortunato incastro. Poco più di un anno fa, la nostra redazione aveva accolto con entusiasmo il precedente Breaking Stretch, che Emanuele aveva definito il “primo grande disco” dell’artista messicana, e possiamo dire che il bis non abbia tardato ad arrivare. Of the Near and Far è un altro gioiellino, per motivi un po’ diversi, ma che sempre hanno a che fare con la forte personalità della vibrafonista.

La direzione tracciata da Of the Near and Far ha origine nel suo concept: nel press kit, Brennan scrive di aver sviluppato nell’estate del 2024 “un processo per estrapolare toni musicali e dati numerici dalle costellazioni”, consistente nella mappatura della forma di queste ultime sul circolo delle quinte. A volte può accadere che premesse come queste fungano da sottotesto concettuale a materiale musicale di per sé povero, così da arricchirne il significato (quando non giustificarne l’esistenza) senza sforzarsi troppo. Per fortuna, stavolta siamo di fronte ad uno di quei casi in cui le idee extramusicali si mostrano indissolubilmente legate alla controparte sonora, venendo piuttosto sfruttate come rampa di lancio per un’evoluzione delle proprie coordinate artistiche. Già dalle prime, vivacissime battute in apertura di Antlia abbiamo infatti la possibilità di cogliere, oltre all’estrema competenza dei musicisti in gioco, un tono e un’attitudine inediti per la discografia di Brennan che separano notevolmente questo disco dal precedente. Se Breaking Stretch si mostrava criptico e cerebrale, Of the Near and Far appare subito più arioso e smussato, grazie soprattutto al contributo offerto dal quartetto d’archi; i due violini, la viola ed il violoncello sono presentissimi in tutti i brani, permettendosi anche di sovrastare occasionalmente il vibrafono e la marimba di Brennan. L’intero lavoro si muove molto abilmente lungo quel bilanciamento fragile tra consonanza e dissonanza che permette ad un album di esporre le sue derive più atmosferiche senza scivolare nella cheesiness. Ne avevo già parlato su Livore con la recensione di Samo Salamon, ma stavolta ci troviamo di fronte a una musica decisamente superiore in tutti gli aspetti, dall’inventiva all’esecuzione.

Questo equilibrio non riguarda poi solamente le armonie e i timbri delle singole tracce, ma anche la gestione dell’andamento dell’intero disco. Prendete ad esempio la differenza tra Aquarius e la successiva Andromeda: la prima è una ballata luminosa, introdotta da una nube di piano adagiata sugli archi che, spinta con precisione dalla batteria, va progressivamente a delineare un motivo melodico a metà tra sentori space age e tendenze impressioniste; la seconda è invece una mazzata che ci riporta a Breaking Stretch, dove la pulsazione in 5/4 della batteria di John Hollenbeck sembra volerci trascinare violentemente a terra (o da qualche altra parte molto lontana dello spazio). Basta l’alternanza tra questi due pezzi a dimostrare come Of the Near and Far sia un lavoro curato fin nei dettagli, in cui la qualità intrinseca di ogni pezzo è funzionale a far girare un grande meccanismo che rimane sullo sfondo – un approccio di ampio respiro, questo, volto a valorizzare non soltanto il singolo brano, ma l’intero disco.

In aggiunta all’abbondante strumentazione di stampo jazz e al quartetto d’archi abbiamo anche il consueto contributo dell’elettronica, stavolta maggiormente autonoma. In diverse occasioni, essa si fonde col resto degli strumenti in un’alchimia che, nell’espandere il ventaglio di atmosfere ed invenzioni dell’album, sfrutta echi, riverberi e distorsioni per legare strettamente l’aspetto musicale alle suggestioni offerte dal concept. Citlalli, ad esempio, è una massa ribollente costruita su notazione grafica dove improvvisazione, sintetizzatori e manipolazione elettroacustica convergono in un “quarto luogo” distinto che spezza in due la tracklist, richiamando la mitologia azteca non solo col suo nome (in lingua nahuatl citlalli significa “stella”), ma anche con l’inquieta luminosità dei suoi suoni. Similmente, Aquila rappresenta l’omonima costellazione ed il suo legame con l’antica Grecia tramite una giungla di vetro popolata da uccellini sintetici. Non appena turbate da una chitarra delicata, le fronde sono presto pervase dai miasmi di una melodia misteriosa che, muovendosi sull’andamento di una fuga, emula il volo dell’aquila stessa attraverso la densità dell’aria. Altri paesaggi floridi e ricchissimi di spunti si trovano poi in Lyra, uno degli episodi più ammirevoli: quando archi e chitarra, sospesi inizialmente nel vuoto nell’intento di definire un’armonia, sembrano aver trovato finalmente una quadra per stabilizzare il pezzo, ecco che si aprono le porte per evasivi tratteggi di piano e vibrafono, reminiscenti delle influenze di stampo impressionista e modernista espressamente citate da Brennan (Debussy, Stravinskij) come anche di oggetti sonori più esoterici, arrivando fino a lambire le risonanze delle Cartas Celestes di Almeida Prado. L’esplosività successiva, con il ritorno del quartetto e del vibrafono sotto le pulsioni della batteria, chiude il tutto in una bolla di plasma, sigillando uno dei brani che quest’anno non potete permettervi di ignorare.

A concludere il lavoro abbiamo infine When You Stare Into the Abyss, l’unica traccia non composta con un riferimento armonico fornito dalle costellazioni, quanto piuttosto ispirata dal concept stesso. La serenità dell’introduzione ambient sembra al principio quasi un po’ stereotipata, eppure l’ensemble provvede presto a sbocciare seguendo le traiettorie che abbiamo già apprezzato nel resto dell’album. Il suono di questo pezzo ricorda un po’ la copertina del disco: note in tutte le direzioni, tenute per i piedi da archi lenti e distesi; sprazzi di lidio, dubbi armonici, un violoncello che scandisce una pulsazione lenta e inesorabile. Un brano insomma bellissimo, e più che adatto per congedare felicemente l’ascoltatore.

Of the Near and Far eccelle non solo nell’impacchettare diligentemente una serie di quadretti sonori a tema spazio, ma anche nell’offrire nuove prospettive per la musica di Patricia Brennan, già uno dei nomi più interessanti dell’intera scena jazz contemporanea. Non si capisce bene perché lo sguardo a questo genere debba essere ogni anno rivolto e catturato da dischi che offrono ben poco di cui stupirsi, quando non espressioni banali e scontate. L’anno scorso toccava a Kamasi Washington, quest’anno è stato il caso dell’ennesimo (gradevole, ma pur sempre un altro) album dei Necks. Dal canto nostro, i grandi nomi ci entusiasmano ben meno della grande musica, ed è questo il perché consideriamo Of the Near and Far indiscutibilmente non solo tra il miglior jazz che questo 2025 abbia fornito, ma uno dei nostri dischi dell’anno.

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Lorenzo Dell'Anna
Lorenzo Dell'Anna