ETHEL CAIN – PERVERTS
Nei miei scritti, ripeto spesso che comporre musica è fare equilibrismo. Potrebbe sembrare una frase da persona che rifugge l’estremo, ma in realtà è qua che entra in gioco l’arguzia dell’artista: gli eccessi più disturbanti rientrano alla perfezione in una logica compositiva, sono rafforzati dalla metodologia con cui vengono espressi. A prescindere dal rispetto dovuto a traumi, tematiche forti e accadimenti tragici, che si spende sul lato umano, su quello musicale è necessario evitare di delegare a questi fatti in sé il gravoso compito di coinvolgere o intrattenere l’ascoltatore. In altre parole, il punto di una composizione deve essere l’arte, non l’oggetto a cui l’arte si riferisce. È questo il mio problema principale con Ethel Cain, e più in generale con un certo modo di fare musica, molto in voga nell’ultimo decennio, dal sapore fortemente gotico, che mischia folklore e sacralità vestendosi di tante influenze diverse ma arrivando sempre alle stesse conclusioni. Perverts non fa eccezione. I motivi di tale fallimento vanno ricercati innanzitutto nelle insidiose premesse alla base: la dicotomia tra fanatismo religioso e peccato irresistibile è una tematica molto accattivante, ma in quanto tale trattata innumerevoli volte in ogni forma d’arte si possa pensare. Pertanto, è sempre più difficile avventurarsi in questo territorio e dire qualcosa di nuovo; nel rock vengono subito alla mente gli Swans e Jarboe, e più recentemente Lingua Ignota, altra Mater Lacrimarum dello stile musicale sopracitato.
Ethel Cain si prefigge dunque di esplorare gli abissi dell’animo umano, il tormento di chi trova estasi all’inferno, la depravazione e la salvezza, e tratta questi temi rifacendosi a una vasta gamma di influenze: folk intimista di estrazione lo-fi e post-rock funereo, con accenti noise e power electronics nei climax, slowcore nelle parti più anedoniche, drone e dark ambient per disperdere un po’ il tutto in un grigiore nebbioso e texturato. L’utilizzo e la mistura di questi generi ha perfettamente senso per il messaggio che l’artista americana vuole veicolare, perfino troppo senso: le scelte estetiche e la palette espressiva utilizzate da Ethel Cain suonano tragicamente ovvie. Ci sono passaggi compositi, nei brani più lunghi come Perverts e Pulldrone, dove lo spoken word distorto che gracchia e rimbomba può ricordare il monolitico Soundtracks for the Blind, o la discesa demoniaca di I Have a Special Plan for this World; questi sono i momenti più riusciti, perché riescono effettivamente a destare un certo disagio grazie all’abilità con cui sono realizzati. Perverts è infatti un disco dove i timbri e le dinamiche sono gestite indubbiamente molto bene, con un lavoro sul suono efficace e un buon utilizzo dei silenzi.
Nella gran parte delle tracce però, dalle più strutturate Punish e Vacillator all’eterea chiosa Amber Waves, il disco manca di intuizioni capaci di destare effettivo interesse, di suscitare emozioni forti quanto gli argomenti che stanno venendo trattati. Ci sono tappeti di synth, pianoforti intimisti che riecheggiano, bordate di feedback in crescendo, e linee vocali pulite ma granulari tra il lamento e l’abbandono, ma niente che impressioni davvero, e si finisce sempre per domandarsi: “ma dove ho già sentito questa cosa?”. Più in generale, anche se è difficile trovare effettivi passi falsi, la perversione di Ethel Cain appare trita e ritrita, tenuta precariamente in piedi da significanti sentiti già decine di volte.
Perverts è un lavoro che si presta molto all’utilizzo di analogie visive per essere descritto. Immaginatevi di essere nell’antica biblioteca di un monastero, tra pietra cruda e legno scuro, a sfogliare un tomo di folklore proibito sequestrato dalla Chiesa: all’interno trovate sbiadite fotografie di pallide figure con lunghi capelli da strega, baracche in legno dentro paludi illuminate dalla luna, donne e uomini in preda ad estasi sadomasochista, carne martoriata, letti disfatti con lenzuola ingiallite, corpi magri catatonici e tante altre immagini su questa falsariga. I panorami che esse schiudono sono vividi perché rappresentati mille volte, ma ormai poco efficaci; per farli funzionare nella contemporaneità occorre inserire elementi destabilizzanti, strani e imprevisti, che ne cambino le logiche e ne sovvertano il valore. Sondare l’estremo non è facile.