GEESE – GETTING KILLED
Ammetto che, prima di mettere su Getting Killed, non avevo mai nemmeno sentito parlare dei Geese. Ma questo nuovo disco, uscito per la Partisan, ha suscitato un tale clamore in tutta la stampa specializzata che era quasi impossibile da evitare. E se persino quel vecchio rincoglionito sionista di Nick Cave si era sperticato le mani per cantare le lodi di Heavy Metal, il disco solista del frontman Cameron Winter uscito l’anno scorso, forse un motivo c’era. A sentire la opener Trinidad, però, ci si sente un po’ presi in giro: ma come? Un’altra band nostalgica degli anni Novanta a metà tra il blues e il noise con i ritornelli urlati? Tutto qui?
I dubbi vengono parzialmente spazzati via quando parte Cobra: un brano che non stonerebbe nella discografia di Van Morrison degli anni Ottanta, cioè quando aveva perso qualsiasi tipo di rilevanza e si era adagiato su atmosfere quasi lounge. La voce di Winter, dalle urla sguaiate dell’opener, qui è invece a metà tra un crooning esageratamente languido e qualcosa di simile a un Tim Buckley con la raucedine. In interviste rilasciate negli scorsi anni, lui parla di ispirazione presa da Robbie Basho e Linda Sharrock: inutile dire che non ci va manco vicino.
Husbands, però, mette in chiaro come stanno le cose e esplica il bisogno di un producer come Kenny Beats in cabina di regia: il fulcro di questo brano dal sapore neo-soul è da trovare tutto nella sezione ritmica — come in quasi tutto il disco. Il punto focale di questa incarnazione dei Geese sta nei continui incastri di batteria e percussioni e nella presenza centrale del basso all’interno della composizione dei brani. Le chitarre e le tastiere sono relegate più che altro ad interventi di abbellimento, che danno colori più sfumati agli arrangiamenti.
Getting Killed è un disco che quindi gioca molto con la possibilità di scombinare le carte in tavola: se la descrizione dei tre brani di apertura qui sopra non vi dà un quadro abbastanza schizofrenico, sappiate che i Geese ci provano davvero tanto a cercare di non fare mai la stessa cosa due volte. Riescono a infilare con facilità un sample di un coro di donne ucraine sulla title track, una rumorosa sterzata dall’odore kraut su Bow Down, o persino delle chitarrone zeppeliniane su 100 Horses. Tutto questo e altro ancora si trova appaiato assieme a distanza di pochi minuti, in un collage di stili che dona al disco un’identità unica nel mondo rock contemporaneo.
C’è però da dire che, per essere un disco che prova a diversificarsi il più possibile, Getting Killed mostra a volte delle crepe legate ai limiti di espansione ed esplorazione della band; l’idea centrale del disco è, come già detto, quella di rimanere ancorati a groove ossessivi del basso e della batteria, e tutto il resto è stato aggiunto in maniera semi-improvvisata durante le registrazioni. Il risultato è che, per quanto creative possano essere le scelte applicate a questi nuclei fondamentali ritmici, a un tratto le limitazioni di un organico come quello di un quartetto rock classico sono destinate a creare ripetizioni stilistiche. E, nel contesto di album come questo, il già sentito è una pena capitale difficile da soprassedere: Islands of Men e Taxes riprendono lo stomp a metà tra neo-soul e indie rock novantiano; Half Real ritratteggia le stesse coordinate à la Van Morrison, come pure Au Pays du Cocaine. La voce di Winter, poi, avrebbe anche la possibilità di spaziare nei timbri e nell’espressività quando si appoggia su dei sostegni così diversificati, ma difficilmente riesce a uscire dalle due o tre escursioni che ho già descritto sopra.
Quando vuole, comunque, il disco suona proprio bene: 100 Horses, ad esempio, ha un incedere talmente funky che non vedo come possa finire nella lista delle mie canzoni preferite del 2025 che definirei come propriamente “rock”. E la chiusa Long Island City Here I Come è, forse, il momento allo stesso momento più interessante e più frustrante del disco: in questo ultimo excursus, la band si butta in una valanga di rumori in continua accelerazione, arrivando a un freakout propriamente psichedelico che dura… una decina di secondi, prima di chiudere il disco. Come se, invece che trovare infine la liberazione dal vincolo che si stringe come un pugno di ferro intorno a tutto l’album, i Geese avessero dichiarato che oltre quelle colonne d’Ercole è meglio non andare.Impossibile non rimanere un po’ con l’amaro in bocca davanti a una realizzazione simile, soprattutto per una persona che invece vuole sempre che le band strabordino al di fuori di sé come sono io. Ma è indubbio che Getting Killed mostri delle idee nuove e competenti, attingendo da una tradizione che pesca dai massimalisti come dal folk rock degli anni Settanta con quel tanto di iconoclastia che basta a non rendere i Geese la solita nostalgica band-copia carbone. Staremo a vedere cosa porteranno in tavola la prossima volta.




