LA NIÑA – FURÈSTA
Premessa: io non volevo che mi piacesse ‘sto disco. Troppo famoso, troppo battage mediatico, uno poi si trova a confrontarsi con le interviste su Vogue, su Vanity Fair, su Cosmopolitan: ma veramente fate? Rolling Stone addirittura arriva a dire: “L’artista ci ha ricordato che la musica può nascere dal cuore e dalla mente, non solo dai like e dagli sbigliettamenti” per una musicista che fa 120.000 follower su Instagram, è già prenotata per un vernissage del disco in tutti i musei d’Italia, è più connessa dei corpi nelle vasche di Matrix, si è messa sotto l’ombrello di casa Sony dopo un paio di anni di attività: insomma, un vero e proprio prodotto sintetizzato in laboratorio con l’obiettivo che esca bene, esattamente quello che in questa redazione odiamo e che stiamo cercando di contrastare a modo nostro con i nostri ultimi progetti.
E un volo d’uccello sulla discografia precedente de La Niña confermava in un certo senso i miei sospetti: le collab con Gemitaiz, Clementino e M¥SS KETA fanno da contorno a un’identità che faticava ad emergere nei primi singoli, nel debutto su EP Eden e in quello su LP di Vanitas. Con qualche notevole eccezione che si appoggiava più pesantemente al folk napoletano (Storia di Afrodite, Salomè, Selenè), La Niña si teneva spesso nel cortile di un R&B/reggaeton di neomelodica decostruita che spaziava dall’ultima incarnazione di Meg fino ai lidi più progressivi di Nziria. Fuori dal napoletano, invece, siamo in zona BLUEM o Daniela Pes. Un prodotto molto ok, ma assolutamente ortogonale ai nostri gusti specifici – e, azzardo, non particolarmente rilevante nel panorama italiano e men che meno globale.
Però il tone of voice oggi è cambiato drasticamente. Responsabili di questo cambio di rotta sono il passaggio da Sony/Columbia a BMG, la scelta dei featuring (la musicista sperimentale francese Yasmine Dubois e il compositore post-industrial e cantante saudita Abdullah Miniawy), ma soprattutto il concept alla base del disco e il suo stellare lavoro sulla scrittura e sulla produzione. Furèsta è un album pazzesco, semplicemente pazzesco, e il fatto che stavolta non siamo in giro per le coste occitane o per le montagne basche per drenare l’arte povera del posto aggiunge uno strato di fascino e orgoglio a un disco che applica il filtro avant-elettronico al folk campano.
Qual è il piano dell’album? L’obiettivo del progetto La Niña (che per ammissione di Moccia si compone di lei, del suo direttore artistico Alfredo Maddaluno e delle persone che partecipano alla produzione dei brani) è quello di scavare a fondo nella tradizione musicale campana, andando a recuperare quei brani che al grande pubblico sono stati solo riportati tramite operazioni come quelle dei Musicanova o della Nuova Compagnia di Canto Popolare, tessendoli insieme con la canzone napoletana del novecento, con lo spirito neomelodico della Napoli contemporanea e ritagliandoli attraverso le cesoie dell’avant-folk e della produzione elettronica roboante che in anni recenti abbiamo trovato qui e lì. Se la prima parte della carriera de La Niña poteva essere efficacemente riassunta come Rosalía goes Sanremo*, questa volta non è possibile trovare una perifrasi così agile per riassumere gli spiriti in tensione di Furèsta, che viaggiano dalla club decostruita al volume 5 di Alan Lomax nel suo viaggio in Italia passando per uno spettro di sonorità e idee ben più ampio di quello descritto da questi due soli poli.
I brani del disco sono incastrati dentro la breve durata di ventotto minuti con un criterio piuttosto trasparente: a partire dal singolone d’accesso Guapparìa (solamente per caso omonimo della canzone napoletana del 1914), Furèsta procede per fuochi d’artificio (Guapparìa appunto, Tremm’ e Figlia d’’a tempesta) in alternanza con breather molto più leggeri o contemplativi (Ahi!, Chiena ‘e scippe, Sanghe) e pezzi-ponte tra i due livelli di arousal (‘O ballo d’’e ‘mpennate, Oinè, Mammama’). Non rientra in questo modello semplificato l’outro Pica Pica, che chiude l’avventura con un profilo angelico e sacrale che fa un po’ il ruolo dell’Ave Maria di Bach nella sequenza di Chernabog in Fantasia. La vibrazione di fondo sta là da qualche parte nello spazio che mette in comunicazione le tammurriate e le tarantelle, i canti corali delle lavandaie, ogni tanto la canzone napoletana del primissimo novecento. Va persino citata – con le pinze – la scuola musicale del barocco napoletano di Francesco Durante, accennata nell’occasionale intervento alla spinetta e in un assetto austero tra strumenti e voce che sembra conservare il genotipo delle cantate di Scarlatti. La scelta di strumenti, del resto, è coerente con queste direzioni: un giro di percussioni di tammorre, tamburelli, castagnette, sonagli rustici fanno da nude fondamenta per tutto l’album, mentre la voce dolente e imponente di Moccia striscia, spesso accompagnata dal coro, tra i suoi cordofoni. Mandolino, chitarrino napoletano e chitarra battente, oltre alla già citata spinetta. Prima di andare in cuffia, l’ultimo tocco è dato da uno strato di campionamenti e tecniche di varia natura, diverso pezzo pezzo. Vale quindi la pena spendersi nel dettaglio per vedere cosa ci lascia questa cavalcata.
Il primissimo singolone uscito da Furèsta, Guapparia, è anche l’intro del disco, e in quanto tale introduce i due protagonisti fotografati dalla copertina: il canto di Moccia e il suo tamburello napoletano, nucleo della corolla di percussioni varie che già intervengono a sostenere il brano. Dichiarazione di intenti, Guapparìa mette da subito le cose in chiaro: i campionamenti iniziali da Voci del Popolo Contadino, Voci di Tamburo vengono presto sommersi in un riff incessante che viene rimbalzato tra le chitarre e quella che sembra una zampogna; questa base per i vari assoli di mandolino procede con una scrittura quadrata e violenta che nella sua claustrofobia già ricorda la versione del bombo di Ana Lua Caiano. L’impressione elettroacustica viene raddoppiata nella successiva ‘O ballo d’’e ‘mpennate, lavoro per solo coro, voce, tammorra e zoccoli, una gimmick che mi ha ricordato tantissimo la Os cabalos salvaxes di Xosé Luis Romero. Nel ballo emerge per la prima volta, a cappella, il potentissimo coro di accompagnamento di Moccia, che un mio amico ha definito ancestrale** e che in effetti ha lo stesso sapore dei pezzi dei San Salvador e, più propriamente, delle coriste storiche della musica napoletana riportate a galla dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Manco il tempo di riflettere e siamo già ad Ahi!, il primo stop dell’album, che invece assume una postura molto più melodica, quando non addirittura neomelodica. Le radici della canzone napoletana novecentesca si sentono tutte nell’uso liberale del mandolino ad accompagnamento dei cori e nelle parti soliste di chitarra, ma il blend con il beat pizzicato della tammorra aggancia la canzone melodica alla tradizione folk più antica, mettendo la prima base per una delle riflessioni più radicali del disco, che vedremo più avanti. Oinè, dall’altro lato, è una massiccia tammurriata in autotune, lineare, con un dialogo costante tra il verso cantilenante e la spinetta in contrappunto; a parte il cambio di tono inaspettato a coda del brano la struttura è estremamente lineare, ma è propria questa semplicità che riesce a ossessionare l’ascoltatore nei limiti del minuto e cinquantanove dal refrain cantato da Moccia. A chiudere la prima sezione del disco, la magistrale Tremm’ (Coprodotta con Matteo Parisi), che sebbene parta con un lamento che potrebbe comparire in un pezzo di Renato Caruso o Sergio Bruni in pochi secondi si reinstalla in un delirio elettronico dettato dalla collab con Dubous aka KUKII, art popper francese di scuola FACTmag dedita alla deconstructed club incazzata e rovente. I sonagli e la tammorra (per qualche motivo suonata coi capelli) vengono contestualizzati in una tempesta sintetica e filtrati attraverso una produzione grassa, punchy e terrosa. L’indizio che possiamo ricavare da Tremm’ è che, per quanto il percorso de La Niña possa essere, di per sé, etnico, la canzone napoletana è solo un proxy per accedere a quello stesso inconscio collettivo che si nasconde in tutte le tradizioni folk e che in tempi recenti è stato dragato soprattutto grazie al linguaggio universale dell’elettronica. In questo sguardo verso l’esterno, forse, si nasconde un potenziale futuro che Furèsta non ha ancora avuto modo di esplorare, ma che è lì, presente e vivo, e che aspetta di essere raccolto.
La seconda sezione del disco comincia con China ‘e scippe, la canzone più personale per Moccia. A corredo del testo, che racconta in qualche parola l’infanzia della cantante, c’è una sezione strumentale di sintetizzatori leggeri, chitarra classica e castagnette, con fronzoli di trillato al mandolino; la canzone procede alternando tra il minore del verso e il maggiore del ritornello, lasciando un precipitato gioioso e nostalgico, rafforzato dall’inserimento della spinetta e incarnato dallo splendido back and forth tra il coro e la voce effettata di Moccia, ad anticipare il mood che verrà esplorato fino in fondo nella chiusura della sezione e del disco, Pica Pica. Mammama’ è un pezzo completamente a cappella, riprende fiato a partire dalla vocalità più spinta del brano precedente e viene sorretto dal forte taglio polifonico del coro e dall’abuso delle plosive e delle labiali, a simulare le percussioni perse per strada. Il tono stavolta è più funereo, prelude alla successiva Figlia d’’a tempesta e lascia l’impressione di star ascoltando altre immense voci dell’avant-folk d’antan. Un po’ impropriamente SentireAscoltare cita Diamanda Galas e Meredith Monk, io mi sento di rilanciare con le parti più sobrie di Magdalith per rimanere nel tendaggio occitano e soprattutto con i cori delle nostrane Faraualla. Ma poco dopo la chiusura di questo esperimento, l’ultima esplosione di Furèsta. Figlia d’’a tempesta riprende lo schiocco della tarantella, unisce un coro ricchissimo e omoritmico a tammorra e tamburello, riesce persino a trasmutare il suono della spinetta in qualcosa di pungente e aggressivo, a reggere un riff fulminoso che raddoppia il lavoro del coro. Il modo in cui il refrain “Fèmmine ‘e niente – Paura ‘e niente” viene portato in crescendo dagli strumenti, la transizione coro-tammorra-basso che omaggia il lavoro alle voci di De Simone, lo stesso timbro verdognolo del coro al ritornello che sembra omaggiare le celebri donne de Le Mystère des Voix Bulgares, fanno insieme un brano inarrestabile, che fa semplicemente paura.
Chiudono il disco Sanghe e Pica Pica. La prima può essere velocemente descritta dal tappeto in tremolo degli archi, che sostiene il duetto tra Moccia e Miniawy. Momento più calmo di tutto il disco, Sanghe sembra più una dichiarazione d’intenti di connettersi con quello spirito panmediterraneo che La Niña cerca di raccontare nelle sue interviste e che si accoda ad una tradizione sincretistica portata avanti da Cristiano Crisci, Raffaele Costantino, o persino Lili Refrain. In questo senso l’approccio riesce a guidare i melismi dei due cantanti nelle zone di cui abbiamo raccontato in Cyber Derdeba, soprattutto lato Amazigh – e l’affaccio su un mondo vecchio e allo stesso tempo nuovo fa il paio con le prospettive universalistiche maturate durante Tremm’. Pica Pica, dall’altro lato, riemerge dalla calma appena riconquistata per costruire su di una filastrocca bambinesca e dolcissima, anticipata a sua volta dalle voci campionate e pizzicate, la mandola, i field recording che riempiono l’atmosfera di una nuova freschezza. Il ritornelletto di Pica Pica va in crescendo con delicati cori in contrappunto, intervengono la mandola a coprire con il trillato, la spinetta a inquadrare le voci, aumentano i bpm senza che si perda il respiro celestiale del tema, e tutto Furèsta termina nell’etereo sfumare della voce di Moccia, lasciandoci da soli con i grilli, l’acqua e i voli d’uccello registrati in presa diretta. Il disco è finito, ma di solito a questo punto l’impulso è quello di ripartire da capo.
Verrebbe da chiedersi, tornando ai dubbi in apertura del pezzo, quanto questo risultato sia naturale. Del resto, come dicevo, siamo sempre stati grandi detrattori di dischi ben fatti che però in filigrana lasciano intravedere una certa plasticosità, un progetto corale di musicisti, produttori, reparto marketing, e così via: diciamo che i numeri e lo storico ci danno tutte le ragioni per essere almeno un po’ sospettosi. Ed era così che avevo approcciato il disco, del resto: where’s the catch? Furèsta è un disco fatto in laboratorio, da un gruppo di persone (o una rete neurale, per quel che vale) che sanno esattamente dove colpire per arrivare l’anno prossimo a Sanremo? Oppure è un’altra cosa?
Oramai il mio verdetto è evidente: è un’altra cosa. A suffragio di questa teoria porto un paio di argomenti. Il primo riguarda la scrittura e la produzione del disco: Furèsta è, nonostante tutto, un lavoro relativamente pulito e non certo rococò. Le principali pulsazioni che il prodotto finito spinge in cuffia si riescono a sbrogliare abbastanza bene, anche se con qualche difficoltà – e la scrittura emerge come stratificata ma piuttosto semplice. Il mosaico di strumenti è fatto di raddoppiamenti, di armonie corali e di percussioni che devono picchiare e che per questo sono comunque composte e poi lavorate per ottenere timbri e melodie lucide e grossolane. Se uniamo a questo panneggio ampio l’expertise e le precedenti collaborazioni di Maddaluno, come il fatto che la maggior parte delle soluzioni mind-blowing del disco sono proprio mutuate da quella stessa tradizione con cui le persone come Carola Moccia (e come me) sono cresciute, l’aritmetica per arrivare a Furèsta non passa proprio da chissà quali stanze di marketing e riunioni di condominio in casa BMG.
Il secondo punto è più importante e riguarda proprio lo spirito che viene sprigionato durante l’ascolto dell’album. La texture fenomenica della musica de La Niña è semplicemente troppo unica e personale per poter essere trattata come qualcosa di diverso da quello che è. E quello che è, è: il primo disco veramente uncompromising di una donna che vuole raccontarsi nella sua geostoria e che ha alle spalle un team eccezionale che possa sostenere il suo polso creativo senza snaturarlo. Non ci sono troppe altre spiegazioni agli assalti a testa bassa di Tremm’ e Figlia d’’a Tempesta, così come non è possibile deferire a nessun altro che a Carola Moccia l’atmosfera fatata che emerge da pezzi come Pica Pica e China ‘e Scippe, evidentemente radicate nelle sue esperienze di vita. Il fatto che questo progetto sia andato a fondo e sia riuscito a generare un album che viaggia spalla a spalla con i capolavori contemporanei della commistione avant-folk, elettronica, club music, art pop, quello che volete – è una cosa che non può che lasciare una traccia positiva e farci ben sperare per le eventuali future evoluzioni del progetto anticipate in Sanghe e Tremm’. Ma anche senza guardare oltre alle prospettive di oggi, Furèsta ha già fatto molto di più di quanto la maggior parte degli album che escono anno per anno sono capaci di fare.
Inoltre, il fatto che un album così stupefacente, così legato – su più livelli – alla terra sia capace di assurgere all’empireo del mercato musicale italiano è un segnale veramente positivo. Non tanto perché tutti ce la possono fare, è chiaro che l’ufficio stampa è il responsabile dell’heavy lifting qui. Ma, più che altro, perché la potenza di fuoco e l’energia espressiva di Moccia sono destinate a fare proseliti e seguaci tra le nuove generazioni che decideranno di mettersi ai microfoni. E pensare a uno stuolo di persone più giovani che decidono di affondare con tutto il corpo nella tradizione della propria regione prima ancora di andare in studio e registrare i propri pensieri non può che rendermi felice. Per la conservazione di una cultura che oramai sembra risiedere solamente nel nostro lizard brain e che viene riattivata sotto forma di impressione ancestrale, appunto, quando ascoltiamo il pezzo giusto. Allo stesso tempo, per l’evoluzione di una cultura che non può stare solo nei vinili impolverati della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma che ha il potenziale di scassare i dancefloor di mezzo mondo e di eruttare, tuonante, nell’era dei dati sintetici.
Io veramente non so che dirvi. Volevo tenere la postura di quello che ne sa, ma la verità è emersa già dal primo ascolto. La Niña riesce ad aprire un dialogo verticale tra tante tradizioni diverse della musica campana, farne un unicum tutto nuovo, e poi gettare questo nuovo agglutinato nel panorama dell’avant-folk globale contemporaneo. C’è tutta la storia che precede l’attualità, e c’è l’attualità. C’è tutto il mondo che circonda la Campania, e c’è la Campania. Tutto incanalato nella voce e nelle mani di una singola persona e del suo team. Il mio disco dell’anno, a quanto pare, viene da San Giorgio a Cremano: ascoltate Furèsta, è un lavoro straordinario.
* Grazie Venus
** Grazie Gennaro