CONTAINER BELLO

CONTINUO A FARMI DOMANDE SU AMERICAN QUARTET DI YONATAN GAT

YONATAN GAT – AMERICAN QUARTET

Joyful Noise

2022

Rock sperimentale, Classica

Il chitarrista israeliano Yonatan Gat riesce magicamente a comparire tra l’enorme pila di ascolti che faccio ogni anno, nemmeno io so bene come. Mi spiego: Gat è originariamente salito alla ribalta della scena internazionale verso la fine degli anni 2000 con i Monotonix, un trio garage rock che era stato incensato da chiunque avesse avuto modo di vederlo e che aveva assunto una certa rilevanza in seguito all’essere stato bandito da qualsiasi locale o evento in Israele. In risposta a questa ostruzione così perentoria, Gat aveva fatto le valigie e si era trasferito a New York: da lì, aveva composto un altro trio e iniziato a scrivere dischi che mescolavano ed esplodevano le sue passioni all’inverosimile. Per dire, Director, del 2015, è perlopiù ispirato a una improbabile commistione tra punk e bossa nova; Universalists, nel 2018, gettava nel mix registrazioni di Alan Lomax, chitarre tishoumaren che manco i Tinariwen, elettronica schizzata… Non contento di questo pot-pourri artistoide, Gat ha nel 2018 assunto il controllo della Stone Tapes, una sottosezione della Joyful Noise che ha pubblicato i Medicine Singers quest’anno, ha riportato in auge Maalem Hassan Ben Jafaar e Mamady Kouyate, e insomma ha fatto tutta roba che ci è piaciuta molto.

Ecco, poco tempo fa il Nostro ha deciso di radunare in studio Greg Saunier (il batterista dei Deerhoof e tra i responsabili di Congotronics International), il pianista classico Curt Sydnor e Mikey Coltun, il bassista del gruppo nigeriano Mdou Moctar, per registrare nel minor numero di take possibile una rendizione rock del Quartetto per archi n. 12 del compositore ceco Antonín Dvořák. Il cosiddetto “Quartetto americano”, che il musicista aveva scritto appena arrivato in America, è stato scelto da Gat proprio per evidenziare un percorso parallelo tra la propria storia personale e quella del suo corrispondente ottocentesco. Se il tutto vi sembra già abbastanza strampalato, sappiate che Gat non sa leggere gli spartiti e che ha quindi imparato l’intera partitura del primo violino ad orecchio, che la batteria dovrebbe replicare le parti della viola, che l’inclusione di uno strumento prettamente armonico come l’organo ricontestualizza in maniera assolutamente spuria e irriverente il quadro melodico dei movimenti del quartetto… Ci tengo a sottolineare anche che chi, leggendo questa recensione fin qui, inizia a pensare che il disco possa suonare come boh, Concerto Grosso per i New Trolls si sbaglia di grosso: l’interpretazione di Gat e soci è severa e rispettosa e non si sbroda mai in lungaggini virtuosistiche oltre quelle inserite ad hoc da Dvořák nello spartito originale. Tuttavia, è innegabile che ascoltando American Quartet un certo tipo di ascoltatori che con il prog neoclassico si è formata sentirà qualche rimando ai lavori di Rick Wakeman e compagnia. Però lo spirito è totalmente diverso, fidatevi.

Ma insomma, com’è alla fine questo American Quartet? È qui che iniziano i veri problemi. Da una parte, posso dirvi per certo che il disco è in assoluto la cosa più divertente e originale che Gat abbia mai registrato finora. C’è una sorta di strano e esilarante stupore nel sentire una melodia “eterna” come quella del quartetto di Dvořák mentre viene fatta a pezzi e rimontata in decine di modi diversi da un complesso che suona per quasi tutto il tempo come la band del Link Wray più anfetaminico. La ricontestualizzazione è disorientante perché quasi non si crede al fatto che quegli stessi intervalli possano assumere un sapore così diverso soltanto usando un altro strumento. Nell’originale c’è una rigorosa e gioiosa esplorazione dello stilema romantico attraverso tutte le sue insidie, sotto l’influsso inevitabile dello slavismo di Brahms; in American Quartet, un insieme di musicisti che riesce a rivoltare come un calzino quella stessa rigidità e creare una interpretazione anarchica ma altrettanto gioiosa di quei momenti grazie a rallentamenti, accelerazioni e dinamiche che vanno al di là dello spartito e che inevitabilmente afferrano per i capelli quel marasma impalpabile di sfumature che l’esecuzione della musica classica porta con sé, esplicitandole all’ennesima potenza.

Dall’altra parte, mentre in questi giorni continuavo ad ascoltare American Quartet non potevo fare a meno di pensare a una vecchia recensione che avevo scritto su Blue dei Mostly Other People Do the Killing. American Quartet sembra essere l’altra faccia della stessa medaglia: quando una reinterpretazione diventa così “blasfema” nei confronti del materiale di partenza, anche se ne lascia intatti tutti i componenti fondamentali (o quasi: in un paio di punti la band di Gat smatta in maniera esagerata, e quello sulla partitura originale di certo non c’è), stiamo ancora parlando dello stesso quartetto di Dvořák? E se così non è, la bravura di Gat deve essere identificata nel suo rendere così diverso lo stesso brano con così poche variabili a disposizione? Oppure deve essere la sua condanna?

Questi e altri interrogativi, insomma, mi si aggrovigliano in testa e non riesco a venirne fuori perché inizio a pensare che non ci sia una vera risposta alle domande che mi sto facendo. Le uniche che mi sembrano valide rispondono unicamente e solamente al gusto del singolo ascoltatore, e su quello poi sta a voi giudicare. Quello che è certo, però, è che American Quartet è un esperimento coraggiosissimo e che funziona per tutta la sua durata, mantenendo viva l’illusione di un Dvořák impossibile, facendo scaturire semi immaginari che germogliando spezzano il marmo dei busti sacrali come aveva fatto Wendy Carlos con Switched-On Bach. E per questo sono totalmente convinto del fatto che non si può fare a meno di premiarlo come uno dei dischi dell’anno.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala