CHE SCHIFO QUESTI SHEARLING

SHEARLING – MOTHERFUCKER, I AM BOTH: “AMEN” AND “HALLELUJAH”…

Mishap

2025

Noise rock, Post-rock

2
Motherfucker, I am Both: "Amen" and "Hallelujah"… by Shearling

I miei dicono che da piccoletto ero “sempre incazzato”. Mi interrogo quotidianamente sul mio rapporto con la rabbia: vorrei essere meno nervoso, meno intenso, vorrei farmi scivolare maggiormente le cose addosso. Ogni volta che guardo un telegiornale, che percepisco malafede nelle intenzioni di qualcuno, che intravedo l’ombra di complessi sistemi di specchi e leve costruiti per prendere per il culo, io mi arrabbio. E più la cosa mi sta a cuore, più mi parte l’embolo. Bastano queste poche righe per dedurre che siccome la musica mi sta molto a cuore mi fa anche arrabbiare spesso, ma dato che l’incazzatura che mi han fatto prendere gli Shearling è a ‘sto giro veramente di una magnitudo notevolissima, forse è bene riversare queste serpentine di pensieri fuori dalla mia testa per fare godere anche altri malcapitati – voi – di questo personalissimo disgusto.

Gli Shearling, quindi. Ve li ricordate gli Sprain? Ne avevamo già parlato male, o comunque esprimendo riserve corpose, e a quanto pare la nostra macumba ha funzionato: si sono sciolti in quello stesso anno. Il problema grosso è che il loro cantante e leader Alexander Kent è ancora in giro a fare danni, e questi Shearling sono infatti una sua creatura, un agglomerato di forza umana grande il giusto per ergerlo con maggior stabilità su nuove vette del cattivo gusto. Tagliando corto – non ho interesse a retrospettive ulteriori sul gruppo e sui suoi componenti, sono arrabbiato – la situazione in cui ci ritroviamo due anni dopo The Lamb as Effigy è banalmente una continuazione nel solco delle falle musicali ed estetiche di quello stesso disco, e già questo sarebbe triste. Ma c’è di più: se The Lamb as Effigy era derivativo, troppo lungo, superficiale e pieno di ispirazioni incollate tra loro posticciamente, Motherfucker, I Am Both: “Amen” and “Hallelujah”… è tutto questo ma al quadrato, a volte al cubo. I riferimenti principali sono chiari come il sole: Xiu Xiu e Swans, rigorosamente post-reunion, fanno da colonne portanti ad un’unica traccia di sessantadue-maledettissimi-minuti in cui viene buttato dentro un po’ di tutto, “an eclectic patchwork of dissonant noise rock, neoclassical arrangements, minimalist folk, chiptunes, glitch experiments, percussion ensembles, homemade gamelan, microtonal Mellotron drones, re-sampled improvisations, and electroacoustic noise”. Sono molto arrabbiato.

Fondamentalmente assistiamo, ancora una volta, alla messa in piedi ad-hoc di un disco presto spacciato come imperdibile, uno di quei lavori che finisce nei siti di database musicali (già sapete) pieno zeppo di tag, di generi diversi, di robe che è impensabile vedere sulla carta coesistere in un solo album. Riesumando il dibattito sull’uovo e la gallina, non si capisce bene se questa musica esista solo grazie alla diffusione di un approccio ossessivo alla catalogazione tipico della nostra epoca o se sia quest’ultima tendenza ad essersi delineata col tempo sulle spalle della musica stessa. Io propendo per la prima opzione, perché ok, ogni tot anni l’inevitabilità di un nuovo monolitico/spirituale/epico/catartico disco degli Swans ce la dobbiamo ciucciare, ma è ormai sempre più frequente assistere a questi fenomeni massimalisti, alla teatralità di eclettismi ostinati e forzati che puntano a rendere la musica che viene fuori il più possibile “farcita” al fine di poterla descrivere come rivoluzionaria, o perlomeno pronta per essere automaticamente celebrata. Nella realtà dei fatti queste operazioni finiscono quasi sempre per dare vita a minestroni senza forma, nei quali le ispirazioni ed i generi di riferimento vengono collegati tra loro in maniera orizzontale, senza che veramente siano studiati i paradigmi alla base del funzionamento di certe estetiche o la storia di certe tradizioni, e soprattutto senza rispetto alcuno per il materiale di partenza, metabolizzato con la velocità di un reel. A supporto di questa tesi, (ri)prendete le parole di Kent a proposito di alcuni grandi compositori del XX secolo, e (ri)fatevi pure due conti sull’acume di questa persona (io sono sempre molto arrabbiato).

Ora viene purtroppo la parte in cui si deve parlare del disco nel dettaglio, ma c’è poco da dire: è una lagna esasperata e derivativa, che spingendo all’estremo l’intensità delle componenti a cui si rifà rende il prodotto finale patetico e profondamente imbarazzante. Tutto è forzato, tutto è pesante, non c’è uno straccio di direzionalità. Sezioni musicali penzolanti come ragnatele da una trave di legno si susseguono una dopo l’altra, a volte il volume aumenta a dismisura, altre si quieta, adesso spunta l’elettronica, ora si cazzeggia con le percussioni per poter tirare in ballo il gamelan nel press kit. C’è però un’unica certezza: le onnipresenti urla di Kent, semplicemente insostenibili, così invadenti da sfiorare la molestia. Il testo affidato a questi piagnistei è chiaramente altrettanto indegno, colmo di allegorie, pathos, strazio assolutamente gratuiti; a trovarne un pregio si potrebbe dire che si impasti bene nella notevolissima capacità di grattugiare le nostre orecchie (e anche qualcosa più in basso) che questo cocktail infernale possiede. Ma naturalmente una tale intensità affascina molto, e non è raro vedere in giro gente che racconta di essersi messa a piangere (!) ascoltando questo disco, di aver sentito profondamente il dolore di Kent nei suoi deliri in cui sessualità, animali e dio solo sa che altro convivono col solo intento di scioccare artificialmente l’ascoltatore, intenzione che d’altronde parte già dalla copertina (enfatizzare il buco di culo di un cavallo era assolutamente necessario, e sicuramente ben rappresentativo del contenuto dell’album).

Motherfucker, I Am Both: “Amen” and “Hallelujah”… è un disco che ho profondamente odiato e che non riascolterò mai, a costo di risultare impreciso nel raccontarlo. E se lo racconto, è perché sento che anche Livore porti con sé una minuscola, piccolissima responsabilità nel rappresentare ed interpretare il panorama musicale contemporaneo, ormai saturo di copioni sempre uguali che abbiamo già visto troppe volte. L’anno scorso era toccato a Vylet Pony finire sotto i riflettori, e avevamo fatto finta di niente. Stavolta, anche basta.

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Lorenzo Dell'Anna
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